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MUSICA ROCK

Stevens, il lato oscuro di Springsteen

Che cosa accomuna l'osannato rocker al baroccheggiante "indie" diventato (semi)noto cinque anni fa con Illinoise? Niente, si direbbe. In realtà entrambi hanno patito il successo, e per reazione hanno registrato un album in solitudine, raccontando la depressione. Ma Sufjan lo fa ancora più strano, con questo The Age of Adz


di Simone Dotto


La sindrome della farfalla già cresciuta che vuole ricacciarsi nel bozzolo è un’affezione inaspettatamente comune fra i musicisti rock. Persino un pezzo duro come Bruce Springsteen, dopo aver piazzato il suo primo numero uno in classifica, chiese ai suoi di passare un po’ di tempo per conto proprio: il risultato si chiama Nebraska, storico album per chitarra e armonica del 1982.
 
Certo, però, che questi “indipendenti” di ultima generazione non ci hanno proprio il fisico. Prendete Sufjan Stevens, ad esempio: nel 2005 il suo quinto disco (Come on Feel) the Illinoise conosce buoni riscontri nel settore del rock alternativo. “Buoni riscontri” da parte della stampa specializzata, s’intende, che sono ben altra faccenda rispetto alle responsabilità di un posto in top-ten. Eppure tanto basta per far andare l’allora trentenne texano in ansia da prestazione: mentre tutti chiedono il bis a gran voce lui rimanda, bluffa, si schermisce dietro qualche antologia di rimasugli e alle rituali strenne natalizie (Songs for Christmas, 2006). Gli ci sono voluti cinque anni di false partenze ma l’atteso seguito di Illinoise è finalmente arrivato: si chiama The Age of Adz, che si pronuncia “Age of Oz”, come Il Mago di Oz e che vuol dire “L’età delle stranezze”. E, come si vedrà, non è un titolo scelto a caso.
 
Primo punto in comune con Nebraska: nei testi come nelle musiche, tutti e due i dischi parlano di depressione (alé!). Depressione pubblica e forse anche personale il primo, che venne dato alle stampe in pieno medioevo reaganiano; decisamente privata e molto poco pubblica il secondo, che pure non esce in un’era dorata, eh. Senza addentrarsi in particolari personali, è stato lo stesso Sufjan a confessare di aver attraversato un brutto periodo di degenza, per colpa di un male “misterioso e debilitante” al sistema nervoso. “Per qualche mese non ho potuto lavorare e sono stato obbligato a concentrarmi soltanto sul mio dolore”. Gli faranno da terapia e da ispirazione le tele di Royal Robertson, il pittore afroamericano affetto di schizofrenia (ecco…) finito anche sulla copertina: un tratto nervoso e un immaginario apocalittico che fanno pendant con i contenuti del disco.
 
E venendo alla musica: visto che l’incurabile pallino di Stevens per il barocchismo scongiurava già in partenza tutti i rischi di un risultato sobrio e dimesso, in che cosa ancora questo The Age of Adz assomiglia al capolavoro acustico di Springsteen? Nel fatto che entrambi sono dischi concepiti e suonati in solitaria, e come tutte - ma proprio tutte - le solitudini di questi tempi, anche quella musicale passa per il computer. A chitarra e armonica si sostituisce un posto in sala macchine: lì, attorniato da sintetizzatori e diavolerie tecnologiche varie, il nostro può dirigere un’orchestra che esiste soltanto nei software e nella sua testa. Cosa che accentua ulteriormente il tasso di autismo presente nell’operazione.
 
Ecco, arrivati a questo punto della recensione, il verdetto bisognerebbe avercelo già in tasca, pronti a calarlo con tanto di conclusione ad effetto. Ma la cattiva notizia invece è che, ad ora, un giudizio definitivo è difficile farselo uscire: ed è una magra consolazione sapere che nemmeno il nostro recensito è proprio un asso nelle “chiuse”, se termina il suo già ostico cd con Impossible Soul, un delirio di ventisei minuti durante i quali trova modo di propinarci qualsiasi effettaccio, compreso il famigerato autotune
 
E’ forse questo il momento più straniante di tutti, ma pure quelli che l’hanno preceduto non scherzavano: mentre si assiste alle sue contorsioni, si può essere alternativamente tentati dal ritenerle il parto di un genio o dal provarne imbarazzo al posto dell’autore. Due reazioni agli antipodi che però si trovano spesso a convivere nello stesso ascolto. Come quando nei cori di Vesuvius si incita da solo (“Sufjan follow your heart”, Sufjan segui il tuo cuore); oppure quando parla in termini evocativi, eppure decisamente schietti, della propria malattia. L’ipotesi più probabile è quella di essere incappati in un lavoro così intimo da far sentire “di troppo” persino chi lo ascolta.


Tags: bruce springsteen, illinoise, indie, recensione, rock, Simone Dotto, Sufjan Stevens, The Age of Adz,
29 Novembre 2010

Oggetto recensito:
Sufjan Stevens, The Age of Adz, Ashmatic Kitty records 2010
giudizio:



7.02
Media: 7 (6 voti)

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