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TEATRO

Anna, il senso del possesso

Maria Paiato, la straordinaria interprete di Maria Zanella e altri monoghi, torna a stupirci con un testo di Annibale Ruccello. E' la storia di una dattilografa che, negli anni del boom, per raggiungere il benessere diventa convivente del proprio capo. E per mantenerlo arriva a un gesto estremo


di Sergio Buttiglieri


L’altra sera, assistendo al Teatro Cargo di Genova Voltri, periferica ma vitalissima realtà teatrale diretta da Laura Sicigliano, al devastante ultimo monologo di Maria Paiato, abbiamo ritrovato la stessa intensità che ci aveva fatto vibrare d’emozione assistendo alla Maria Zanella, uno dei suoi primi indimenticabili assoli, pregni dello stesso dolore che la protagonista Anna Cappelli, da un testo di Annibale Ruccello, impiegatina infagottata dentro al suo cappottino giallo in pieno boom economico post dopoguerra, ci trasmette con tutta la sua ansia di possedere la merce, la casa, il marito, il benessere, la riconoscibilità, per poi ritrovarsi disperata nella sua solitudine con il ragioniere che la vuole mollare per rifarsi un’altra vita, con tutto il castello di carte che le crolla addosso e che lei invano tenterà di sostenere nella maniera peggiore possibile che possiate immaginare.
 
La nostra dattilografa, diretta con la precisa regia di Pierpaolo Sepe, che nelle scene iniziali sembra la parodia di Glenn Gould al pianoforte, sommersa com’è dalle scartoffie della ripresa italica, non può accontentarsi della sua vita in prestito nell’appartamentino dell’odiosa sig.ra Tamburini, sciatta locataria con la cucina in comune che puzza sempre di bollito di pesce per i gatti. Non può rassegnarsi ad aver perso anche la sua cameretta, il suo unico spazio privato, a casa dei propri genitori, che non va mai a trovare, perché loro hanno, di punto in bianco, preferito assegnarla a sua sorella Giuliana.
 
Anna Cappelli, come tutti noi, ha bisogno di avere delle cose soltanto per sé, da non condividere con gli altri. Come ad esempio le 12 stanze della “reggia” in cui vive da solo il suo mitico capufficio. E non resta che sedurlo per arrivare al possesso della magione. Lei armata di valigione bombato, finto gucci, di borsina nera finta kelly, di guanti e scarpe bianche con la punta nera, molto anni ’50, esattamente come la scritta un po’ holliwoodiana che campeggia sullo sfondo. Unica ridondante scenografia di questa scarna esistenza in cui l’affare del secolo è entrare nella vita del ragionier Tonino Scarpa attraverso il “contratto” di matrimonio. Matrimonio che non avverrà mai, preferendo il ragioniere, metterla nel limbo della precarietà, una sorta di co.co.co. ante litteram della convivenza, sotto il pretesto di essere una coppia emancipata.
 
Ma tutto questo è sempre meglio del lurido stanzino in cui viveva, maleodorante, con il telefono col lucchetto, con la tv che si poteva accendere solo quando voleva la sig.ra Tamburini. Il ragioniere, pur nella sua pragmatica odiosa strategia di difesa dall’accerchiamento della sua dattilografa, è l’unica cosa veramente propria di questa ansiosa donna del dopoguerra a cui manca tutto per essere qualcosa. Che non si rassegna a vedere “il marito” barricato dietro ai giornali, che si autoconvince di essere trattata dagli amici come una coppia normale. Cosa sono in fondo gli irregolari a Latina dove loro vivono?
 
“No, il bambino no, non te lo chiedo. E’ presto! Non è questione di prole”, il problema per la nostra dattilografa rampante è far piazza pulita nella casa, e quindi estromettere la vecchia cameriera del ragioniere, colpevole in qualche modo, di possedere non tanto il “territorio”, ma lui stesso, attraverso la gestione dei suoi riti quotidiani. Perché in fondo la dattilografa è un po’ la metafora di noi italiani, che abbiamo repentinamente rimosso la nostra origine contadina, tutta tesa a tesaurizzare i raccolti, innamorati dall’inedito spettacolo delle merci luccicanti accessibili con la scala mobile e il carosello, affascinati dall’opportunità di possedere due fustini al prezzo di uno, associamo il possesso del compagno con il possesso delle sue cose. E allora che senso ha più la famiglia in cui c’era posto per gli anziani? Meglio gli ospizi in cui rimuovere ciò che non è più idoneo al consumo. Ciò che non luccica più di novità.
 
Ed è forse per questo che la nostra dattilografa disposta a tutto, improvvisa orfana del benessere appena raggiunto, alla notizia che lui “intende cambiare aria” s’inginocchia davanti al ragionier Toni, certamente odiandolo, ma facendo finta di essere una neo santa Maria Goretti. Ma lui le da il benservito come fosse una cameriera inadempiente, come se l’avesse sorpresa a rubare i gioielli di famiglia. E glielo dice con la freddezza di un registratore a bobina, di quelli professionali ad “alta fedeltà”. Ma la nostra dattilografa entrata nel loop del non ritorno, decide ciò che non dovrebbe mai decidere, portando a termine il completo possesso delle merci, reificando il suo amore in una maniera indicibile. Accorgendosi dell’inutilità del gesto e della fine di ogni cosa, quasi una metafora della crisi dei subprime dei nostri giorni. Tutto è inutile, non serve a nulla nutrirsi dell’inutilità delle nostre esistenze addomesticate dai bisogni indotti, mai abbastanza serene per essere in pace con se stessi senza bisogno di altro.
 
Grandissima Paiato, con una gestualità precisa e tagliente, con gustose citazioni da noir d’epoca, con, ad un certo punto, quel suo magistrale percorrere vorticosamente in cerchio il palco come un animale in gabbia ferito e rabbioso, con quella sua speciale presenza scenica teatrale, capace d’introdursi intimamente dentro ognuno degli spettatori, come se fosse entrata, quasi per caso, in punta di piedi, sottovoce, per non disturbare, ma che alla fine del monologo fa venire giù il teatro dagli applausi.



Tags: Anna Cappelli, annibale ruccello, maria paiato, Pierpaolo Sepe, recensione, Sergio Buttiglieri,
27 Novembre 2012

Oggetto recensito:

Anna Cappelli, di Annibale Ruccello, con Maria Paiato, regia di Pierpaolo Sepe

Visto a: Teatro Cargo di Genova Voltri
In tournée: a Milano al Piccolo teatro dal 27 novembre al 2 dicembre
Produzione: Fondazione Salerno Contemporanea Teatro Stabile d’innovazione
Annibale Ruccello: l'autore di questo monologo è uno dei più interessanti drammaturghi del nostro secondo Novecento, scomparso a soli trent’anni a metà degli anni Ottanta

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