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TEATRO

Ballo da morire

Letteralmente "sepolta" dai fiori sulla scena, la danzattrice Lisa May è protagonista della Preparatio Mortis di Jan Fabre: una celebrazione coreografata a rappresentare la fine delle nostre esistenze, che paradossalmente lascia perplesso lo spettatore per l'assenza di... vitalità. 


di Igor Vazzaz

 


"La morte sovrasta l'esserci. La morte non è affatto una semplice presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un'imminenza che sovrasta". Di certo Jan Fabre, nel concepire Preparatio mortis, non ha ignorate le riflessioni di Heidegger su quello che è il concetto limite, feticcio rimosso dall’orizzonte ideale della modernità. Si muore, in forma impersonale, ché sono sempre gli altri a defungere e nessuno assiste alla propria dipartita, vivendola (morendola) alla stregua di fatto. S’esorcizza costantemente il Tristo Mietitore, con procedimenti rituali, sequenze formulari, gestualità apotropaiche: presenza/assenza liminare da mai evocare, ricordare, paventare.
 
Fabre, teatrante iconoclasta, ribelle, disturbante, artista indiscusso della scena internazionale, ribalta l’assunto e sposa la morte, celebrata in uno spettacolo che è perfomance, danza macabra, installazione ad altissimo coefficiente organico.
 
PreparatioMortis016-1024x681.jpgSfumano le luci e il buio accoglie una toccata organistica di armonie tortuose, passaggi svettanti alternati a dissonanti dilatazioni armoniche. È il vuoto atro di un’origine quello che culla il guardo velato e smarrito dello spettatore. Seguono minuti di cecità inflitta, a tagliare ogni ponte col mondo, preparare alla visione. Fiochi fasci lumeggiano i contorni enigmatici d’una figura in un flebile disegno ondulatorio: se ne intuisce un cromatismo variopinto, sinuoso. È il movimento liquido, vermicolare, d’una presenza ignota, palesata da un raggiare in crescendo: il vello floreale di petali rossi, gialli, bianchi, scopre mano a mano arti umani su di una costruzione, sorta di catafalco dai lati di materia crespa. I fiori scivolano, consegnano agli sguardi attoniti le fibre muscolari di Lisa May, danzattrice, principale corpo scenico che sostituisce Annabelle Chambon, originaria interprete e coreografa di un allestimento improntato alla fascinazione inquieta, ossessiva.
 
Al disvelamento corrisponde un piazzato di luci ampio, su una distesa di fiori disposti in un disegno rettangolare. Il bouquet odoroso, prima appena percepibile, s’intensifica, riempie nari e pupille d’una paradossale esplosione sinestetica. È una danza ora sfrenata ora immota quella di May, dalle reminescenze bauschiane nell’alternare apollinei tableau a sequenze estenuanti e convulse: solleva i fiori, disfatti per la sfibrante partitura gestuale della ragazza in nero bikini, di cui s’avvertono, nei silenzi musicali, il respiro franto, i singulti lancinanti, gli spasmi straziati. L’arca, liberata dalle fronde vegetali che la celavano, è una teca trasparente grande quanto una bara funebre, sulla cui parete verticale opposta al pubblico campeggia una serie numerica, una data: 17.01.1975. L’oscurità marca l’ultimo passaggio: un mormorio luminoso, interno alla nicchia, delinea il contorno del corpo femminile, di polare nudità.
 
La danzatrice, nella scatola cristallina, si agita con alcune farfalle: il corpo fluttua nella rara luce, intrappolato, cullato, i lepidotteri attratti dal chiarore, schiacciati dai movimenti indifferenti o volontari. Le dita tracciano figure primitive (intuiamo a fatica una forma bovina, un fallo) sulla parete offuscata dal vapore del respiro, e la musica insiste in climax d’accordi stremanti, i cui bassi non riescono, però, a investire del tutto orecchie, stomaci e corpi della sala. È il buio. Il silenzio che segna la fine. La morte.
 
Non si può dire che Preparatio mortis sia spettacolo dimenticabile, ma si resta interdetti nel cercare il motivo per cui lo ricorderemo: non la vibrazione profonda, il solco scavato nella memoria, gemme agognate e inutilmente attese. Prevale una sensazione d’incompiutezza, per un allestimento algido, nella vitrea e intellettualistica freddezza di un’esecuzione puntuale quanto estetizzante. Senza desiderio, passione, sangue. Morte senza vita, pur nell’esibizione organica (fiori, corpi umani e animali sono probabilmente il riferimento alle tre principali dimensioni della vita che l’uomo può percepire). Morte senza rinascita, senza neppure lo spettro d’un definitivo annichilimento, salutare e liberatorio. Una morte che neppure il teatro, arte misteriosa ed atavica che nel rapporto col mondo dei defunti trova una delle proprie principali e profonde ragioni, questa volta riesce far vibrare.



Tags: Annabelle Chambon, danza, Igor Vazzaz, morte, Preparatio Mortis, recensione,
24 Luglio 2012

Oggetto recensito:

Preparatio mortis di Jan Fabre

 

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