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TEATRO

Il Genio e il nonsense

Nessuna "vera" storia eppure migliaia di significati, uno per ogni spettatore. L'Einstein on the beach che Robert Wilson e l'autore delle musiche Philip Glass stanno portando in giro per il mondo, si ripropone alle scene in un allestimento imponente. Cinque ore di spettacolo e trentasei anni di Storia del teatro in un'unica sera


di Anna Colafiglio

 foto di T. Charles Erickson


"Che 'significato' potesse o dovesse avere l'Einstein on the Beach, non importava affatto. L'opera iniziava con un treno del XIX secolo e terminava con un'astronave del XX secolo, ed era un fuoco di fila di immagini, movimenti, parole, musica, a cui si aggiungevano le fantasie degli spettatori stessi". Philip Glass parla al passato, ma che l'Einstein sia arrivato indenne attraverso trentasei anni di storia, appare un fatto indiscutibile; e che lo spettacolo mantenga, tutt'oggi, la sua carica dirompente e altra, rispetto a quello che è il panorama teatrale di oggi e di ieri, è un fatto concreto.
 
eob (2).jpgUn allestimento mastodontico, quello che Robert Wilson e Philip Glass hanno deciso di rimettere in piedi, nonché uno dei capisaldi della storia del teatro contemporaneo: migliaia di pagine riempite, di speculazioni sui significati, sui simbolismi, sul valore di quel nonsense che, in quanto tale, è colonna portante dell'opera tutta. Einstein on the Beach ha il sapore forte e deciso della Storia: un colosso di quasi cinque ore, durante le quali la dimensione spazio-temporale della quotidianità è del tutto annullata. A stagliarsi dinanzi agli occhi di una platea ammutolita di meraviglia, un'opera ipnotica, bella, nell'accezione propria di un termine che, una volta tanto, ci è permesso di utilizzare.
 
L'opera si compone di quattro atti, separati tra loro dai Knee Play, intermezzi di raccordo tra le scene; l'intero spettacolo si basa sull'alternanza dei tre temi visivi del Treno, del Processo e del Campo-Astronave. Inutile cercarla, una trama lineare non c'è: i riferimenti a quella "superstar degli anni 40", che riuscì a rendere persino la fisica un fenomeno pop, sono indiretti e fortemente simbolici. Lo stesso Wilson pare abbia scelto Einstein, come protagonista della sua opera, poiché conosciuto da tutti e non bisognoso di presentazioni: "il ritratto di Einstein che noi costruivamo mano a mano sulla scena veniva a sostituire l'idea della trama, della storia, dello sviluppo dell'azione del teatro tradizionale. [...] Non c'era bisogno di raccontarne la storia, perché chiunque fosse venuto a vedere il nostro Einstein si sarebbe portato dietro, a teatro, la 'sua' storia del personaggio", afferma Philip Glass. 
 
Sulla scena, lo svolgimento

eob (1).jpg lento e cadenzato dei diversi quadri lascia spazio
a riferimenti aperti alla vita dello scienziato: l'eclissi, i razzi e le bombe atomiche sono solo alcuni dei simbolismi presenti nell'opera. A far da contraltare a tutto ciò, un Einstein in carne e ossa, con tanto di violino, è collocato a metà tra l'orchestra e il palcoscenico: si tratta di un richiamo alla nota passione che lo scienziato nutriva per questo strumento, con il quale si era cimentato in maniera dilettantesca; la figura di Einstein violinista era ben presente nell'immaginario collettivo, così come quella, celebre, dell'Einstein con la linguaccia, ripresa qui in una esilarante scena corale. La partitura cantata dal coro (stupefacente nella sua bravura) è composta di note solfeggiate, sillabe e sequenze numeriche; il canto si dipana sulla musica minimale e ciclica di Philip Glass, che procede per ripetizioni cadenzate e progressive aggiunte, contribuendo a conferire, all'opera tutta, quel ritmo ipnotico e quella dimensione onirica e astratta, priva di connotazione temporale, che caratterizza l'intero Einstein.
 
Undici sono, invece, i testi recitati: nove scritti da Christopher Knowles, un visionario quattordicenne con problemi di autismo, che a lungo aveva lavorato con Wilson; uno di Samuel M. Johnson, anziano attore e interprete dell'opera; uno di Lucinda Childs, danzatrice, coreografa di Enstein on the Beach (il cui testo è l'unico a contenere riferimenti vaghi a quella spiaggia che è citata nel titolo). Di Lucinda, pilastro della postmodern dance, sono anche le coreografie minimali dei due bellissimi pezzi danzati che formano i quadri del Campo-Astronave, perfettamente integrati nel contesto dell'opera tutta e volti a "sciogliere" la stasi creata dai movimenti lenti e condensati delle sequenze precedenti. 
 
Si assiste all'Einstein on the Beach e si resta sospesi, a bocca aperta; si ha l'impressione di trovarsi dinanzi alla Storia del Teatro che si fa bella e si manifesta, in tutta la sua magnifica e attualissima potenza.


Tags: Anna Colafiglio, Einstein on a beach, Philip Glass, recensione, robert wilson, teatro,
04 Maggio 2012

Oggetto recensito:

Robert Wilson e Philip Glass, Einstein on the beach

In scena: Antoine Silverman (Einstein / Violino solista), Helga Davis, Kate Moran, Jasper Newell, Charles Williams; Lucinda Childs Dance Company; Coro
 
Testi di: Christopher Knowles, Samuel M. Johnson, Lucinda Childs
 
Musiche: eseguite da The Philip Glass Ensemble, diretto da Michael Riesman
 
Produzione: Pomegranate Arts, in associazione con Change Performing Arts
 
Visto a: Reggio Emilia, Teatro Municipale Valli, 25 marzo 2012
 
Info: sul sito ufficiale 
 
Tournée: Londra, The Barbican Theatre, dal 9 al 13 maggio 2012; Toronto, Sony Centre of Performing Arts, dall'8 al 10 giugno 2012; Brooklyn, Opera House, dal 14 al 16 e dal 19 al 23 settembre 2012; Berkeley, Zellerbach Hall, dal 26 al 28 ottobre 2012; Mexico City, Teatro del Palacio de Bellas Artes, dal 9 all'11 novembre 2012; Amsterdam, Het Muziektheater, dal 5 al 7 e dal 10 al 12 gennaio 2013; Hong Kong, Hong Kong Cultural Centre Grand Theatre, dal 6 all'8 marzo 2013.
 
La pecca: l'organizzazione ha, audacemente, deciso di mantenere intatto il proposito degli autori: nessun intervallo prefissato, pubblico lasciato libero di entrare e uscire a suo piacimento durante lo svolgimento dell'opera, prendendosi pause a seconda delle proprie esigenze. Peccato, però, che tutto ciò non abbia tenuto conto dei fattori propri della "italianità". Qualunquismo? Forse. Ma sta di fatto che il tasso di presenza di omini che, alzatisi in piedi, si stiracchiavano con tutta calma e si dirigevano con passo molle verso la fila davanti, per incitare rumorosamente l'amico a prendere un caffè, è stato fastidiosissimamente alto.

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