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TEATRO PER BAMBINI

Ma i bimbi non ridono

Il Teatro delle Briciole affida ai veronesi di Babilonia Teatri un allestimento per i più piccoli. Forte di lavori apprezzati come Made in Italy e Pornobboy, con Baby don't cry la compagnia si produce nel suo repertorio esplosivo di luci, musica e citazioni pop. Ma per sorprendere e divertire i giovanissimi ci vuole ben altro


di Igor Vazzaz


Questione annosa, già proposta in queste lande (leggi): come devono essere gli spettacoli per bambini, quali parametri comprendere, quali (e quanti) livelli di lettura proporre? Interrogativo insidioso perché sempre aperto, problematico e declinabile all’infinito. È così che Teatro delle Briciole, in occasione d’un progetto rivolto ai ragazzi, commissiona a Babilonia Teatri, formazione veronese che da qualche stagione fa discutere pubblico e critica, un allestimento per e sui bambini. Titolo Baby Don’t Cry, tema, peraltro intrigante, il pianto. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, principali volti "babilonesi", non esitano e - sull’onda di un’inchiesta svolta nelle scuole primarie parmensi - piegano l’argomento secondo la propria peculiare poetica fatta d’emorragie verbali, giochi blobbistici e un innegabile furore da pop-punkers del Nuovo Millennio.
 
Ne risulta uno spettacolo rapido, a tratti affilato, rigorosamente sopra le righe, secondo la gamma dei registri utilizzati pure per i precedenti made in italy e Pornobboy (leggi la recensione). Nello spazio rettangolare dominato da un’iniziale penombra, Marco Olivieri e Francesco Speri prestano corpi e voci al dedalo delirio d’istanze infantili d’una ricerca disperata sul senso del pianto, la sua natura profonda e contraddittoria. Il Grand Guignol di significanti esplosi nel quadrante scenico rende una performance caotica, in cui ogni elemento procede secondo criteri d’ipertrofia: gli accostamenti, violenti, bizzarri, creano frazioni lessicali, frizioni semantiche, siano essi sonori (il pianoforte suonato da Olivieri, il pop a tutto volume, il ridicolo MIDI d’una stonata canzonetta d’un improbabile karaoke), visivi (il lampeggiante sulla tastiera durante le esecuzioni al piano, i grembiuli scolastici appesi e poi strappati, le luci sparate verso il pubblico a mo’ di concertone rock) o testuali. 
 
E proprio la costruzione, per così dire, letteraria è, forse, il testimone più lucido d’una abitudine che, se da un lato evidenzia la fedeltà a una precisa poetica del gruppo, dall’altro rischia d’ingabbiare Babilonia in un prevedibile sistema di stilemi dati. La congerie di immagini, buffe e paradossali sequenze non estranee a certe litanie simile a quelle di un vecchio gruppo punk italiano come i CCCP, è l’emblema di un complesso di strategie che, se nelle prime applicazioni poteva sorprendere, interdire, financo divBabyDontCry-Img.jpgertire (pensiamo alle bestemmie di made in italy), in questa circostanza ci pare frusta sopravvivenza d’un far teatro che reitera sé stesso senza troppo interrogarsi. 
 
Il problema s’estende, di fatto, all’intera costruzione del testo scenico, alla tessitura musicale, alla dinamica fratturata d’accelerazioni vorticose e dilatazioni esibite: posto che, l’abbiamo capito, Babilonia sbatte in faccia al pubblico le purulente escrescenze di un’Italia trasfigurata nel contemporaneo grottesco (operazione che, di per sé, non ci parrebbe neppure l’inusitata novità di cui capita talvolta di leggere), tutto questo industriarsi all’accumulo, sommando gesti su voci, luci su presenze, alla fin fine incappa nello scacco più mortifero: non sorprende. E, se al punk (comprensivo d’ogni sua variopinta appendice: pre, post, new e via andare) manca la dimensione dello stupore, cui prodest? A chi giova tutto ciò?
 
S’aggiunga, peraltro, che lo spettacolo avrebbe da rivolgersi non tanto a un pubblico di noiosi spettatori scenici - osservatori scafati e adusi agli uzzoli dei teatranti di moda - ma a platee bambine, ed ecco che il problema ci pare ben serio. Non perché gli infanti siano nani idioti da proteggere o difendere dalle insidie dell’estetica, tutt’altro: i bimbi sono osservatori impietosi, raramente mendaci e non li si può ammansire con le moine pop, le trovate postmoderne, le strizzatine d’occhio d’un anticonformismo essenzialmente di facciata e, alla fin fine, da sbadiglio.

È un peccato, però, ché questo Baby Don’t Cry qualche qualità ce la potrebbe pure avere: nelle visioni magrittiane (la scena dei megafoni che coprono i volti degli attori è forse la migliore dell’intera recita), in alcuni “absurdismi”, nei giochi gestuali e naïf di Olivieri (non vedente, ma lo si percepisce solo a spettacolo inoltrato), in una dolce squinternatezza che sarebbe la giusta cifra dell’allestimento se solo si pensasse allo spettacolo e non alla perpetrazione d’uno stile, contraddicendo il dichiarato intento di sperimentare. Si resta con le orecchie ingolfate dalla musica degli INXS, qualche immagine e, in coda, a poco valgono i Cure per rassicurarci che, in realtà, Boys Don’t Cry.



Tags: babilonia teatri, baby don't cry, Boys don't cry, Cure, Igor Vazzaz, Teatro delle Briciole, verona,
14 Luglio 2011

Oggetto recensito:

Babilonia Teatri, Baby Don’t Cry, testo e regia di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani

Prossimamente: tenere d’occhio il sito www.babiloniateatri.it
Produzione: Babilonia Teatri/Teatro delle Briciole - Solares Fondazione delle Arti
Durata: 50 minuti circa
Visto a: Castiglioncello (Li), Castello Pasquini, il 7 luglio 2011, festival Inequilibrio 2011
Altro spettacolo recente: The end (leggi la recensione)
La coincidenza: a Verona, città di Babilonia Teatri, negli anni Novanta esisteva una rivista giovanile intitolata I ragazzi non piangono, traduzione del celebre disco dei The Cure

giudizio:



5.344614
Media: 5.3 (26 voti)

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