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WEEKEND - MUSICA

Il vero Festival italiano

E' Umbria Jazz, che a differenza di altre rassegne non conosce crisi. Grazie al contatto ravvicinato tra questa musica e il suo pubblico. A quasi quarant'anni dalla prima edizione, Franco Fayenz, uno dei più autorevoli critici musicali italiani, ripercorre le tappe storiche della manifestazione: dalla chiusura degli anni '70 per troppo successo, alla fortunata idea della versione invernale. E indica la strada per il futuro


di Franco Fayenz

(Illustrazione di Daniela Tieni)


Umbria Jazz è considerato, non soltanto in Italia, uno dei festival musicali più importanti del mondo, anche al di là del jazz. La prima edizione, itinerante e gratuita, si è mossa nel luglio 1973 da Villalago di Piediluco presso Terni. La rassegna è tuttora attiva ogni anno nello stesso mese, seppure con caratteristiche molto diverse: oggi si tiene soltanto a Perugia e la gratuità è limitata ad alcuni concerti. Dal 1993 c’è una consorella invernale, Umbria Jazz Winter, che ha luogo ad Orvieto in coincidenza con le feste degli ultimi giorni dell’anno. L’una e l’altra insieme hanno dato vita a più di cinquanta eventi: ci sono giornalisti, operatori musicali e semplici spettatori che li hanno visti e ascoltati tutti, nel bene nel male, e nelle trasformazioni che si sono succedute anno dopo anno. E chiedono da tempo che se ne parli per riassumerne il peso specifico e il contributo alla musica d’oggi. Ci proviamo, cominciando con qualche indispensabile nota di storia.
 
Nella vicenda di Umbria Jazz estiva ci sono due momenti fondamentali. Il primo è la sospensione dal 1978 al 1981 “per troppo successo”, proprio così. Il festival era nata per dare al maggior numero possibile di appassionati, anche in Italia, la musica preferita. Ma la gratuità si rivela un errore. Si capisce quasi subito che ai concerti approda soprattutto chi non ha niente di meglio da fare; e già nel 1974 succede qualcosa che gonfia e cambia la composizione del pubblico. A Misano Adriatico, a poco più di cento chilometri da Perugia, la polizia cancella un gigantesco raduno rock per preoccupazioni di ordine pubblico. I giovani si trasferiscono con i loro sacchi a pelo in Umbria dove il festival sta per iniziare, e scoprono che il jazz non è da buttare e ha perfino “il messaggio sociale” (di sinistra, così esigono all’epoca: a nessuno viene in mente che possa anche essere di destra). Per quattro anni Umbria Jazz si trasforma in un appuntamento estivo per quarantamila campeggiatori che già a cento metri dal palcoscenico non ascoltano nulla e impediscono l’ascolto agli altri. Nel 1978 un’orchestra non riesce a raggiungere lo stage a causa di migliaia di corpi distesi, ed è la fine.
 
Si ricomincia nel 1982 su nuove basi: si fa musica soltanto a Perugia (si ricorda un’edizione allestita tutta nei teatri e nelle sale cittadine) e la gratuità, fatti salvi i concerti minori, è abolita. Un po’ alla volta il festival tende ugualmente a dilatarsi, ma per i concerti maggiori bastano e avanzano i Giardini del Frontone, capaci di tremila persone. E qui c’è il secondo momento fondamentale, meno citato ma quasi altrettanto importante. Nel luglio 2003, per tener dietro alle esigenze degli sponsor privati, i Giardini vengono abbandonati per l’Arena Santa Giuliana, uno spazio per cinquemila spettatori ricavato in un campo sportivo. Qui il “vero jazz” in pratica scompare, perché oggi solamente pochi grandi nomi superstiti (Keith Jarrett, Sonny Rollins, Wynton Marsalis) sono in grado di richiamare tanto pubblico. E quindi il jazz ritorna nei teatri perugini, perlopiù a mezzanotte. Non è un rimbrotto, i tempi sono quelli che sono, ma bisogna fare attenzione alla selezione degli “altri”. Per menzionare almeno un nome, nel 2009 la presenza di un ex big come il chitarrista George Benson è stata micidiale.
 
In questa cornice, l’invenzione nel 1993 della versione invernale, Umbria Jazz Winter, a Orvieto, quasi una scommessa temeraria di tipo culturale, si rivela vincente. La città è piccola e intima con i suoi vicoli medievali raccolti intorno al Duomo meraviglioso, ha sale e teatri pregevoli e una capacità logistica limitata. Eppure, dopo alcuni anni, anche qui si nota una vaga tendenza all’ipertrofia, per quanto difficile e in fondo dannosa sotto il profilo economico. E’ palese l’imitazione dell’Umbria Jazz estiva con musica da mezzogiorno alle ore piccole, e concerti che si effettuano nello stesso momento rubandosi il pubblico a vicenda. Eppure Umbria Jazz invernale regge meglio della sorella maggiore ed è più jazzy, potendo evitare (a meno che non li vada a cercare) i problemi connessi ai nomi di richiamo estranei. Proprio nell’ultima edizione che si è svolta dal 30 dicembre 2009 al 3 gennaio del nuovo anno, la rassegna sembra avviata verso una formula giusta. Ha invitato musicisti in residenza e li ha scelti bene: i mitici chitarristi Jim Hall e Bill Frisell in un indimenticabile duo e in quartetto con Scott Colley contrabbasso e Joey Baron batteria; il contrabbassista John Clayton con il figlio Gerald al pianoforte, e ancora in duo con il contrabbasso di John Patitucci. Magnifici gli italiani migliori, il Trio di Roma e il trombettista Fulvio Sicurtà con Enzo Pietropaoli al contrabbasso. E’ la strada buona, ma bisogna percorrerla.
 



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27 Febbraio 2010


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