Non è teatro, non è musica, non è danza e non è arte: è il nuovo spettacolo di Marco Parente, con un demone poveraccio, letteralmente cornuto e mazziato, per protagonista
di Igor Vazzaz
Fotografia scattata da Maga
Quale futuro, se di futuro si può parlare, per il teatro canzone? Forma ibrida e feconda, consegnataci da un Gaber divenuto “classico” e tuttora in attesa di interpreti degni (gli esperimenti al riguardo sono successi di pubblico, ma fiaschi d’estetica e politica), questo peculiare (de)genere novecentesco sembra ancora necessitare di tempo per potersi dichiarare in salute. E mentre i “puri” alfieri del rock italiano, gli Afterhours, si aprono, in modo discutibile, alla performance, c’è chi, sottotraccia ma non troppo, elabora strategie espressive a scardinare gli stilemi consueti della canzone in scena, cercando nuove e differenti fusioni tra musica, immagine, parola, gesto e narrazione.
Marco Parente è un artista originale, bestia strana, cui non difettano curiosità, coraggio e humour: cinque (o sei?) album da cantautore (?!) alle spalle, un’attività da musicista, scrittore e performer che lo ha visto collaborare con i CSI, Carmen Consoli, Patty Pravo, Lawrence Ferlinghetti, in un labirinto di percorsi assai difficile da riassumere. Artista, in una parola. Con una certa allergia per le etichette, ma, soprattutto, le definizioni conchiuse.
A condurci presso il Teatro Studio Valeria Moriconi di Jesi, ex edificio religioso che ora ospita una bella mostra dedicata all’attrice, è la sua ultima realizzazione scenica, Il diavolaccio. Trattasi d’una moderna operina in cui è narrata, mediante un coagulo di forme espressive diverse, l’epopea stra-lunata d’un povero demone, protagonista narrato-narrante del tutto. Sembra un concerto: batteria sulla sinistra, tastiere sul fronte opposto, amplificatori e casse spia, ma, sin da subito, si percepisce qualcosa d’altro, e non tanto per lo schermo campeggiante sul fondale. Con rumori e voci fuori scena, canzoni disciolte tra racconto e aforisma, ecco Parente-diavolaccio, chitarra in pugno e ombrello aperto sulla testa, tenuto alto da una figura alle sue spalle. La reminescenza magrittiana squarcia il velo su una vicenda giocosa e beffarda, dai toni onirici e arguti, in cui a farla da padrone è una figura fuori tempo, fuori sincro, fuori parte.
Il diavolo in questione non è un essere malvagio e potente, ma il dis-graziato protagonista delle fiabe russe, perennemente gabbato, letteralmente cornuto e mazziato. Antieroe del manque, dell’atto mancato, dell’inciampo, manifesta la sua natura sfuggente, così come lo spettacolo stesso denuncia il suo essere sempre altrove, qualcosa da esperire e di cui diventa paradosso testimoniare: non è teatro (per fortuna), non è musica pop, non è danza, benché la bravura di Francesca Gironi sia innegabile, non è, infine, nemmeno arte, anche se belle sono le proiezioni che sfruttano lo sfondo e le due nicchie laterali dell’ex chiesa di San Floriano.
Non è e non, si perdoni il bisticcio, per negazione, ma perché la sottrazione è il punto focale di questo progetto in cui la struttura stessa si mette in crisi: canzoni eseguite in posizioni di squilibrio, proiezioni, luci puntate negli occhi al pubblico, voci registrate che mescolano favolistica e rigurgiti tra Kafka e Joyce, discese in platea ed evoluzioni in scena di una “figura a cinque scarpe”, in cui gli arti e la testa sono contenuti in calzari ginnici, come nel manifesto dello spettacolo (la foto accanto è di Ruggero Lupo Mengoni).
Il tutto in un’ora d’inusitata leggerezza, con la sensazione finale di non aver afferrato ogni cosa e la sete di rivedere, di capire. La parola, per quanto presente, è tarlata, usata a mo’ d’oggetto sonoro, significante che manca (almeno in parte) del significato, testimone d’una crisi irreversibile. Ed ecco l’illuminazione: il dispregiativo del titolo non è omaggio alla toscanità d’adozione di Parente, ma eco perduta d’un Carmelo Bene che non si cita per troppo, e apprezzabile, rispetto, quello d’un indimenticabile Lorenzaccio, in cui le crasi del senso e del tempo erano spinte ai limiti estremi. È così, dunque, che questo spettacolo non è, né può essere, teatro canzone: è altro, ed è bene così, nella speranza che le repliche possano levigare meglio una scrittura scenica brillante, ma con margini di miglioramento, e che possa esistere un pubblico in grado di mettersi in gioco, e giocarsi, con la stessa leggiadria demonica di questo dis-graziato Diavolaccio.
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Prossimamente: 8 maggio, Espace Senghor - Maelstrom Festival (Belgio); in tournée nei mesi a venire, vedere l’apposita pagina del sito di Parente
Il resto della locandina: Andrea Allulli, piano e varie macchine parlanti; Emanuele Maniscalco, tutto ciò che concerne il tempo; Mattia Coletti, suono; Marco Falai, disegno luci; Serena Costarelli, scene e costumi (pensati da Parente); Studio Roberto Bua, set design; Giovanni Antignano, visual; produzione Fondo Mole Vanvitelliana con il contributo della Regione Marche e del Ministero della Gioventù
Somiglia a: nessuno, pur con tracce e reminiscenze che abbiamo cercato di ricostruire
Lo spettacolo precedente: Il rumore dei libri, del 2005, che a questo punto ci pentiamo d’aver mancato; ma, forse, era destino
Il bello: qualcuno, di tanto in tanto, prova davvero a fare qualcosa di inatteso
L’essere-scarpa: la bizzarra immagine del manifesto ricorda in qualche modo la copertina di Trout Mask Replica di Captain Beefheart, leggendaria (e tuttora incredibile) pietra miliare del rock
Oltre Diavolaccio: Parente ha un duo dall’ironico nome Betti Barsantini (vistosa anchorwoman del Tg3 toscano) in combutta con Alessandro Fiori, voce e autore del gruppo Mariposa
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