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TEATRO

La Maleducazione siberiana

Veri o falsi che siano, gli Urka in esilio raccontati nel romanzo di Nicolai Lilin stanno conoscendo in Italia un plauso unanime in ogni disciplina artistica. Se Gabriele Salvatores ha già provveduto a tradurre il testo per il cinema, Giuseppe Miale di Mauro lo porta a calcare le assi del palcoscenico, ma i risultati non convincono fino in fondo.


di Igor Vazzaz

 


Se è vero che gli Urka siberiani ritenevano i soldi qualcosa di sporco e incline alla corruzione di chi li maneggia al punto da proibirsi di portarseli a casa e seppellirli lontani dalle abitazioni (a onor del vero, pure il vituperatissimo Occidente ha una consolidata, carsica tradizione di spregio monetario, testimoniata peraltro nel bel libro Il denaro Sterco del demonio di Massimo Fini), se ne potrebbe evincere che, a un primo sguardo, Nicolai Lilin non dev’essere poi granché siberiano. Dal successo assoluto del suo primo romanzo, l’eclatante Educazione siberiana pubblicato nel 2009 da Einaudi e tradotto in ventitré lingue cui sono seguiti altri tre volumi, all’apertura milanese di Kolima, spazio dedicato all’arte contemporanea, alla recente traslazione filmica del libro operata da Gabriele Salvatores, la vita del tatuatore cresciuto in Transnistria (stato canaglia riconosciuto dalla Russia ma non dall’ONU, di cui chi scrive è da tempo dadaisticamente innamorato) parrebbe essersi calata in un gigantesco frullatore di consenso e riconoscimento plenari.
 
Last but not least, l’approdo del cavallo di battaglia sulle tavole del palcoscenico, per mano di Giuseppe Miale di Mauro e la compagnia napoletana NesT, che già avevano portato in teatro Gomorra di Roberto Saviano, a conferma di un’evidente attrazione per temi sanguigni e idealmente borderline. Per quanto consci dell’innegabile alone d’ambiguità che avviluppa lo scrittore/artista (le accuse di bufala son fioccate da più parti, spesso da studiosi e antropologi accreditati), rimandiamo la questione a chi più se ne intende, consci che le opere d’arte possono ben alimentarsi d’invenzioni e che la sbandierata “aderenza alla realtà” (quale realtà?) costituisce matrice vieppiù promozionale, e non certo garanzia qualitativa. Shakespeare riprendeva fatti che manco dominava (in La tempesta Milano è città costiera) e ciò mai ha tolto pregio all’immensità delle sue opere.
 
educazionesiberiana2.jpgUno spazio ampio, delimitato da un muro grigiastro, iconica traduzione di miseria da interno novecentesco slavo, accoglie la paradossale epopea dei criminali onesti, brandelli di popolo siberiano che le deportazioni staliniane avrebbero sradicato dalla propria regione e trapiantati in Europa, al confine moldavo. Il tavolo da una mano, dall’altra la sacra angoliera delle icone presso cui depositare voti e armi. Un’atmosfera sottile, solcata da luci vaghe, a disegnar tagli ed evocare la croce, totem religioso d’una criminalità tale per contrapposizione a un regime sanguinario che ne perpetra la diaspora, fisica e culturale. È la storia di una famiglia di fuorilegge polarizzata attorno alla figura del nonno (un ben convincente Luigi Diberti, ieratico e intenso) e degli eredi, i giovani, divisi tra l’adesione ai valori tradizionali e la corruzione offerta da un sistema, rappresentato dagli “sbirri”, i poliziotti sovietici, a loro volta corrotti dal contrabbando con l’Occidente. Osservatore esterno e dolente, la madre (Elsa Bossi), straziata per le continue irruzioni, per la ferina divisione della famiglia: Boris (Adriano Pantaleo) il figlio fedele ai dettami onesti e Yuri (Francesco Di Leva), che abbraccia il “nuovo mondo” di esteriorità, valori facili, successo e denaro.
 
La contrapposizione è netta, ma sin troppo semplicistica: recupera l’archetipo della dualità fraterna (si pensi a Eteocle e Polinice, eredi di Edipo nell’epopea tebana), sciogliendola in un costrutto d’eccessivo didascalismo, in cui l’urgenza di farsi comprendere rischia la diluizione, mediante l’intensa voce off a spiegar la morale, rivendicando la “giustizia” d’un universo in sgretolamento, quello dei vecchi “onesti” siberiani. Il libro, dedalo narrativo di brucianti episodi in accumulo, è travasato in storia compiuta, il che, a nostro avviso, non è che fosse necessario, anzi: infatti, la drammaturgia suona esteriore, illustrativa, come in pasto a un pubblico non ritenuto in grado di poter sentire ancor prima di comprendere. L’opzione ci pare investire anche la recitazione: Elsa Bossi (che ammiriamo da tempo e di cui rammentiamo la collaborazione col Teatro del Carretto in Giovanna al rogo e Amleto) qui s’inerpica su toni patetici e ventrali a lei pure consoni, ma cui, in questa fattispecie, lo Stanislavskij che (non) è in noi replicherebbe col suo fatale "non ci credo".
 
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Lo si avverte nella totalità dell’insieme, nel disegno naïf d’un regime “brutto e cattivo”,ma senza sostanza storica né contestuale (gli sbirri paiono orchi fiabeschi, e non prodotti d’un tessuto storico e sociale, leggerezza imperdonabile dato che si pretende di riferirsi a fatti -sedicenti- reali), di personaggi costruiti tutti su una gestualità ostentata e d’ispirazione cinematografica. Di buono, la scenografia di Carmine Guarino, con il fondale scorrevole a consentire sequenze simultanee, in un’insistente dialettica dentro/fuori: l’interno/proscenio dei valori “autentici” (cui corrisponde il silenzio insistito del nonno), l’esterno dell’apertura all’irragionevole e spietata modernità.
 
Vien da pensare che il problema stia, per paradosso, alla base, nella scelta d’un testo teoricamente efficace, ma che avrebbe dovuto esser filtrato da una vaglia più severa, distillando gesti scenici in grado di tradurne la potenza sorgente. Pensiamo al libro (vero o falso che sia), al passaggio delle vesti da vecchi a giovani, ad altre sequenze che offrirebbero in teatro soluzioni meno verbali e più pregnanti. Certo, sarebbe stato necessario neutralizzare ancor più l’apporto di Lilin sull’allestimento, ché il teatro non s’impara in due balletti (le dichiarazioni dello scrittore alla stampa chiariscono ampiamente la sua, scusabilissima, estraneità alla scena), sarebbe stato utile tradurre in gesto le parole e non “descrivere i sentimenti” (errore fatale, parola di Harold Pinter), distorsioni necessarie rispetto a una fonte letteraria (si pensi alle traslazioni in scena di romanzi operate da Nekrosius) che, in teatro, deve acquisire una dimensione fisica in grado di abdicare alla dittatura della parola, calata invece in una dimensione plurale di codici. Insomma, il vecchio e mai superato adagio per cui, in arte e in teatro soprattutto, per essere fedeli s’ha da tradire.
 
Resta uno spettacolo che non convince, al di là del plauso d’un pubblico entusiasta, già da prima apparecchiato alla buona ricezione: trascorso un giorno dalla visione (prova del nove fondamentale per valutarne l’effetto), rimane poco, troppo poco, nemmeno il retrogusto che, dato il tema, sarebbe giusto attendersi, e questo ben al di là del dubbio se gli urka siano o meno esistiti.


Tags: Educazione Siberiana, gabriele salvatores, Igor Vazzaz, Nicolai Lilin, recensione, roberto saviano, urka,
15 Aprile 2013

Oggetto recensito:

Educazione siberiana, di Nicolai Lilin, regia di Giuseppe Miale di Mauro

Il resto della locandina: da un’idea di Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo; Luigi Biondi, luci; Francesco Forni, musiche; Giovanna Napolitano, costumi; Roberto Aldorasi, cura del movimento; con Pippo Cangiano, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo, Andrea Vellotti; produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino / Teatro Metastasio Stabile della Torscana/ Emilia Romagna Teatro Fondazione
 
Il libro: Nicolai Lilin, Educazione siberiana, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2009
 
Lilin dixit: "La via di comunicazione più difficile è quella letteraria. Perché lo scrittore è solo, e per raccontare il mondo ha un solo strumento, le parole. In teatro, e anche al cinema, è per certi versi più facile: lavori in team. Io non sarei mai stato in grado di scrivere una drammaturgia, ma Giuseppe Miale invece mi ha svelato il teatro e i suoi meccanismi, le tecniche, cosa vede e capisce il pubblico, e poco per volta abbiamo messo insieme il testo. Mi ha fatto vedere un mondo nuovo"
 
I dubbi su Lilin (non si sa se o perché ignorati da Miale di Mauro):
Indagine su un libro culto della mafia-post-sovietica:sembrava-tutto-vero
Lilin, la bufala che venne dal freddo
 
La cosa insopportabile: l’ormai consolidata doppia, risibile, morale dell’opinione pubblica (tendenzialmente di centrosinistra) italiana, ben rappresentata da Roberto Saviano, che anela la “buona delinquenza di una volta”, contrapponendola a quella “cattiva” contemporanea, applicando un pasolinismo d’accatto che davvero non si può tollerare, ignorando che si tratta solo e sempre di prospettiva narrativa: i good fellas di Scorsese sono simpatici per costrutto retorico, perché narrativamente tutto può funzionare ed essere accettabile; se ce ne trovassimo uno di fronte a chiederci il pizzo, pur se fosse Joe Pesci, non apprezzeremmo. Se Tarantino descrivesse Sandokan Schiavone ne verrebbe fuori un personaggio da urlo, con buona pace di tutti (del resto, il bel serial Boardwalk Empire prodotto da Scorsese narra l’ascesa della mafia americana all’epoca di Capone).

 

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