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TEATRO

L'Ibsen inespresso

Manuela Mandracchia presta il volto a una delle eroine tragiche del drammaturgo nordeuropeo, Hedda Gabler. Oltre alla prestazione dell'attrice protagonista, la regia di Antonio Calenda non riesce a reggere il confronto con gli storici allestimenti di Massimo Castri


di Sergio Buttiglieri

 


Una fra le più interessanti attrici del nostro teatro di prosa, Manuela Mandracchia, ci ha proposto una superlativa Hedda Gabler, dall’omonimo testo di Henrik Ibsen (appena debuttato al Teatro della Corte di Genova), uno dei più maturi capolavori del drammaturgo norvegese che, assieme a Cechov e a Pirandello, ha rappresentato l'essenza del Teatro moderno.
 
Ciò che colpisce della Mandracchia è l’assoluta immediatezza, rapidità, asciuttezza interpretativa che mette al servizio del suo personaggio, tra dialoghi movimentati e di colpi di scena mai davvero clamorosi, piccoli gesti e frasi apodittiche. Hedda Gabler voleva rimanere se stessa ed essere la signora Tesman insieme: un paradosso all'origine della tragedia e che con la complicità delle pistole del generale Gabler, simboliche ancore di salvezza di un essere disperato, porterà la protagonista in fuga all’inevitabile tragico epilogo.
 
hedda.jpgLa regia di Antonio Calenda per questa nuova produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, pur essendo dignitosa, non ha purtroppo l’allure di quelle ormai storiche di Massimo Castri, che negli anni ha lungamente esplorato in maniera raffinata l’autore novergese, primo interprete dei conflitti morali e sociali della coscienza moderna. Nell'80 aveva stupito con Rosmersholm, mostrandoci come Ibsen potesse essere scandaloso e provocatorio, a distanza di oltre un secolo; e nel1981, mentre Ronconi presentava un altro Ibsen, L’Anitra selvatica, Castri portava in tourne proprio Hedda Gabler ripercorrendo “le nervature fondamentali del dramma ibseniano soltanto per mostrare l’impossibilità del dramma, l’improponibilità della tragedia quale struttura in cui possa mai riconoscersi una società di mercanti” come ben evidenziava Roberto Alonge.

In questo ultimo lavoro di Calenda, è Massimo Nicolini che interpreta lo scrittore maledetto Lővborg, con tutto il furore del superomismo nietzschiano che Ibsen gli aveva impresso: la sua figura è irrimediabilmente persa in un mondo solipsistico, in cui non c’è più posto neppure per il suo prezioso manoscritto, da lui smarrito fra un bordello e una serata ad alto tasso alcolico. Jorgen Tesman - che Jacopo Venturiero recita con la stessa indisponente vacua cecità verso l’universo femminile che traspariva nel testo ibseniano - è l’unico a non capire che sua moglie e' incinta, troppo preso dai suoi insulsi studi letterari, troppo preoccupato di non essere all’altezza del suo dissoluto rivale Lővborg, un tempo infatuato della protagonista.
 
Hedda è così angosciosamente distante dal marito, che diviene epitome perfetta di quell'ermafroditismo di cui parla Alberto Savinio in un prezioso libro sulla vita di Ibsen, e che altro non è che la profonda e insanabile inimicizia tra uomo e donna; un’eterna distanza che la nostra civiltà, attraverso la convivenza sociale, il formarsi delle famiglie e delle nazioni, tenta di ridurre, sperando, inconsapevolmente, in un ritorno all'unione originaria tra Ermes e Afrodite.
 
Calenda concepisce la vicenda in un interno di una cupa soffocante villa, che “ha odore di rinchiuso”, dell’alta borghesia del nord Europa, in cui Hedda e Jorgen sono appena giunti dopo un lungo - e per lei noiosissimo - viaggio di nozze. 

hedda3.jpgLa tragedia di Hedda Gabler è tutta interiore, non esteriore, descriverne i dettagli smorza la tensione del dramma. Così la petulante signorina Juliane Tesman, sua zia (Simonetta Cartia) e la imbarazzata domestica Berte (Laura Piazza), riescono forse troppo naturalistiche per reggere la grandezza della protagonista, così come il triangolo che tenta di stabilire il viscido giudice Brack (Lucian Roman), è esagaratamente di maniera.
 
L’agitata signora Elvsted ha il suo impagabile "momento di gloria" mentre viene spogliata delle sue corazze dall’acuta e implacabile capacità introspettiva di Hedda, in quella sorta di lettino psicanalitico in primo piano in cui si consumano, a turno, tutti i duetti del dramma. E in cui si esplicita al meglio che tutti i drammi di Ibsen hanno una tesi di fondo: la morale convenzionale uccide. La ricerca della verità ad ogni costo è incompatibile con il matrimonio borghese su cui si fonda la società, quindi l’epilogo dei suoi drammi non è mai a lieto fine...

 
Diceva Henry James che i personaggi di Ibsen hanno “la straordinaria, brillante proprietà, quando vengono rappresentati, di diventare al tempo stesso più astratti e più vivi", ma qui solo la protagonista mantiene del tutto le promesse. Il resto aveva bisogno di maggiore coraggio nella regia. Il problema di mettere oggi in scena Ibsen sta nel capire che, per la forza intrinseca della situazione drammatica, il dialogo realistico si deve tramutare in discorso lirico e musicale come per Cechov, apparentemente distante ma che in realtà a lui deve molto. Per entrambi l’azione, una volta avviata, deve procedere come un incendio di foresta sotto l’assillo del vento. E per Calenda in alcuni momenti il vento è calato.


Tags: Antonio Calenda, Hedda Gabler, Henrik Ibsen, massimo castri, recensione, Sergio Buttiglieri,
01 Marzo 2013

Oggetto recensito:

Hedda Gabler, di Henrik Ibsen, regia di Antonio Calenda

Il resto della locandina: versione italiana di Roberto Alonge, scene di Pier Paolo Bisleri, costumi di Carla Teti, musiche di Germano Mazzocchetti, luci di Nino Napoletano
 
Tournèe: 3 marzo, Teatro Auditorium, Trento; 7/10 marzo Teatro Rossetti,
 Trieste;  16/17 marzo Teatro Aquila di Fermo, 20 marzo Teatro dei Marsi, Avezzano.

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