Il dramma che lo stesso Pirandello trasse da una sua novella, portato in scena da Gabriele Lavia (con la figlia Lucia) dopo quasi cento anni. Che si sentono tutti
di Igor Vazzaz
Un imponente interno borghese dagli alti e inquietanti finestroni verticali, avvolto nella fioca luce retrostante o dai proiettori con parsimonia ritagliati a calibro sulle sagome degli attori. L’opacità d’una tela semitrasparente rende la teoria ancor più flebile, ovattata: solo il sollevarsi del drappo ne segnala in senso compiuto la presenza all’occhio miope dello spettatore. La realtà è nascosta, celata tra le pieghe del non detto, dai velami sordidi del taciuto, dell’insinuato in faccia o alle spalle delle persone. A segnarne irreparabilmente l’esistenza. È questa una delle principali chiavi di senso del pirandelliano Tutto per bene, dramma che nel 1906 lo scrittore girgentino trae da una propria novella, e la scenografia dal cupo gusto espressionista che Gabriele Lavia commissiona ad Alessandro Camera (prezioso il contributo delle luci di Giovanni Santolamazza) ci sembra rispettare in senso profondo lo spirito del dettato testuale. Del resto, l’amara vicenda di Martino Lori ben s’attaglia a quella poetica del buio tanto cara all’attore e regista che, da non molto, ha superato la sorprendente soglia dei settant’anni, di cui oltre cinquanta in scena.
L’allestimento si apre con una licenza rispetto al dramma originale: una voce fuoricampo accompagna l’esile figura del protagonista (lo stesso Lavia) a rendere, come avviene da sedici anni, omaggio quotidiano alla moglie defunta, visitandone il sepolcro. Per tutta la durata del dramma (oltre due ore e venti), l’imponente catafalco sulla sinistra del proscenio rappresenta una sorta di richiamo alla morte (e alla morta) aleggiante sulla vicenda. Non un piano della realtà a incorniciar dall’esterno quello della finzione, ma l’intersezione di più livelli, per una dimensione caleidoscopica nell’abisso che non condurrà mai l’uomo alla verità, se non nel dolore.
La storia: Martino Lori, anonimo impiegato ministeriale assurto con meritevole sorpresa al rango di cavaliere del lavoro, scopre d’un tratto d’aver vissuto una pupazzata, ingannato da una moglie fedifraga, da un amico adultero, da un figlia non sua che l’accusa di vigliacca condiscendenza rispetto all’infame condizione di cornuto. È per lui che il velo cala, rivelando il precipizio d’un inferno vissuto senza saperlo, nell’umiliazione bruciante d’esser ritenuto da tutti un imbecille.
Lavia rende un protagonista sommesso, quasi impalpabile nella prima parte, sin troppo dilatata e ad alto rischio di monotonia, cui corrisponde un secondo segmento di grandi accelerazioni rabbiose, che però non riscattano del tutto lo spettacolo dall’impasse precedente. A poco valgono le timide libertà registiche, il bordone protratto e continuo d’una tempesta marcata dal sordo ritmo di tuoni incessanti, la silhouette della danzatrice Alessandra Cristiani insinuata nel quadro scenico, o la stessa recitazione, improntata a un andamento convenzionale che minaccia d’impantanare il dramma in una terra di nessuno tra un realismo ormai insufficiente e una rinnovata espressività ancor tutta da individuare. Ed è per questo che le sequenze in cui gli attori interrompono la recita slittando all’indietro a passo di danza sulle note d’un valzer, anziché invenzione dischiaratrice di quel senso del contrario che la regia vuol imprimere per astrazione, appaiono soluzione velleitaria, non convincente, tenendo pure conto delle stesse note di regia.
Si resta con uno spettacolo non privo d’interesse, ma eccessivamente macchinoso, come non di rado accade a certe messe in scena che, da pirandelliane, rischiano di mutarsi in pirandellate. A rimetterci, ed è un peccato, una compagnia d’attori che sappiamo capaci: citiamo l’ottima prova di Gianni De Lellis nei panni d’un vivacissimo Salvo Manfroni, la ficcante Barbetti di Daniela Poggi, affiancati da protagonisti non sempre allo stesso livello (Lavia meno efficace del solito e la di lui figlia, Lucia, anch’essa sottotono). L’inizio di stagione consente di sperare in progressivi aggiustamenti, benché sia arduo pensare che si risolvano tutti gli aspetti d’un allestimento, in ciò ironicamente coerente con le poetiche di drammaturgo e regista, in chiaroscuro.
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Tutto per bene, di Luigi Pirandello, regia di Gabriele Lavia
Il resto della locandina: Andrea Viotti, costumi; Giordano Corapi, musiche; e con Riccardo Bocci, Giorgio Crisafi, Riccardo Montillo, Woody Neri, Dajana Roncione; Produzione Teatro di Roma
Prossimamente: Torino, T.Carignano, 20/11-2/12; Bergamo, T.Donizetti, 4-9/12; Genova, T.della Corte, 11-20/12; Roma, T.Argentina, 16-27/01/13
La novella: tenendo conto, come edizione di riferimento, le Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, con premessa di Giovanni Macchia, pubblicate nel primo volume de I Meridiani (Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1985), Tutto per bene è il ventiquattresimo racconto, contenuto nella seconda sezione, La vita nuda
Il testo della novella in rete: qui
Il debutto assoluto: 2 marzo 1920, a Roma (Teatro Quirino) con la Compagnia di Ruggero Ruggeri
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