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TEATRO

Cartoline da Tennessee

Dopo le spettacolari riletture di Annibale Ruccello, Arturo Cirillo si sposta oltreoceano con Lo zoo di vetro di T. Williams. Le claustrofobiche dinamiche familiari del testo sono sempre angoscianti, e gli attori strepitosi, ma un'interpretazione forse troppo letterale dà un risultato un po' didascalico


di Sergio Buttiglieri


Seguo da tempo Arturo Cirillo ed è, a volte, di una carica irresistibile, specialmente quando mette in scena i testi di Annibale Ruccello, come il recente strepitoso Ferdinando o il mitico Le cinque rose di Jennifer. Questa volta, alle prese con Tennessee Williams, uno dei suoi primi celeberrimi lavori, Lo Zoo di vetro, non ho ritrovato la stessa intensità cui ci aveva abituato. Il testo del '44 è noto, e tutti ci aspettavamo una rilettura più coraggiosa di questa famiglia imperfetta, zoppicante, piena di rimpianti, che sopravvive con il fantasma del padre inopinatamente sparito mentre presto subirà identico abbandono da parte del figlio, insofferente di una madre che vive col pensiero rivolto al passato. Figlio che ogni sera esce per entrare in quella sorta di caverna del mito platonico che era, ed è ancora per molti di noi, il cinema, in cui preferiamo immergerci tutt'ora per avvicinarci a quella che preferiremmo fosse la realtà.
 
La sorella claudicante, ha il suo "cinema privato" nella scatolina con gli animaletti di vetro, più fragili di lei, eppure al sicuro finché non li metterà nelle mani dell'amico del fratello, che da principe azzurro si rivelerà poi inaccessibile e inaffidabile, come sono inaccessibili e inaffidabili tutti i sogni, e non solo per ognuno di loro. Questo zoo di vetro, che ogni tanto Laura osserva venendone illuminata come da un fascio di luce, ci ricorda un po' il chiarore dell'iPad e un po' la meraviglia del cinema muto; secondo l'autore invece doveva ricordare un'innaturale chiarità stellare, simile a quella degli antichi ritratti delle madonne o delle sante. In questa gabbia di matti, spietato ritratto di T. W. della solitudine all'interno dei nuclei famigliari, Cirillo si muove con una rigorosa attenzione al testo che declina appena un po' nella sua lingua partenopea e che accompagna con musiche italiane anni '60.
 
Il tutto lo ambienta in un modesto interno fatto di divanetti in finta pelle e di tavole sempre apparecchiate, da tinello di periferia, in cui ritrovarsi per il claustrofobico rito del pranzo per fuggirne appena possibile. Ma tutto ciò non basta. Occorreva tradire di più il testo per farcene nuovamente assaporare la forza originaria. I nostri giorni multimediali richiedono che questi temi sulle inquietudini delle nostre coscienze, siano affrontati con nuovi registri linguistici. Non abbiamo bisogno di fotografare per l'ennesima volta il testo americano o metterlo in scena come avvenne al suo debutto. Può essere anche così, come in questo caso e grazie anche agli ottimi attori della sua compagnia, ma diventa quasi un documento d'epoca, vediamo esattamente quello che ci immaginavamo fosse il testo. Ma forse non è questo che chi ama il teatro oggi vuole per ritornarci. Probabilmente vorrebbe una dilaniante sorpresa, il che non vuol dire che debbano esserci gli effetti speciali, ma semplicemente uno sguardo altro e inatteso... Altrimenti ricadiamo nel vortice del solito maltrattato "Pirandello" sempre in tournèe, che ad ogni stagione tutti vanno a vedere sapendo già che, salvo rare eccezioni, non succederà nulla di nuovo.
 
I ritratti sospesi sul palcoscenico, ideati da Cirillo, diventano icone positive dei personaggi stessi, restituendoceli meno angosciati di quello che in realtà sono. A cominciare dal figlio Tom, adeguatamente interpretato dal regista stesso, con la sua proverbiale indolenza, prototipo dello "sdraiato" dei nostri giorni. Amanda, la madre implacabile nella sua ostinata voglia di rimettere le cose a posto nella sua vita mancata, restituitaci in tutta la sua "crudele ingenuità", da una convincente Milvia Marigliano, bolla l'apatia del figlio, dal punto di vista della "caotica vitalità" che nonostante tutto possiede, come uno "con l'eloquenza dell'ostrica"; per non parlare della sorella Laura, interpretata da Monica Piseddu, magnificamente persa nella sua insicurezza, che in fondo è quella di ognuno di noi, ma che lei maschera meglio col suo passo incerto, perfetto alibi per tirarsi definitivamente fuori dai giochi.
 
Jim/Edoardo Ribatto, "un bravo giovanotto qualunque" come lo classifica T.W. nel copione originale, è l'emblema del mondo che sta fuori dalla porta di tutti noi, un mondo che ci deluderà e che è meglio non invitare a conoscerci. È inutile che per riceverlo ci mettiamo il vestito buono in cui non entriamo più, come farà Amanda, o che sveniamo come capiterà a Laura: gli altri non sono mai la soluzione dei nostri problemi.
 
Tom forse è l'unico che lo aveva capito fin dall'inizio, ed è per questo che non aveva mai pensato ad invitarlo e che alla fine sbatte la porta e se ne va, dove bene non lo sapremo, ma sicuramente con l'illusione di tirarsi fuori dalle tortuose dinamiche famigliari che lo ossessionano senza risoluzioni possibili. Anche lui si innamora delle "distanze" come fece tanti anni prima il padre, incapace di dare, e tantomeno di ricevere, attenzioni.
 
Gli applausi alla fine ci sono stati, ma avrebbero potuto essere più calorosi se il regista avesse osato di più, raccontandoci magari, attraverso una più radicale rielaborazione testuale, la perenne crisi del teatro contemporaneo immobilizzato dal contrasto fra l'impossibilità di concepire il personaggio altrimenti che "insignificante", perché concepirlo positivo sarebbe considerato una "menzogna", e la voglia di attingere a quell'orizzonte di significati che una volta si chiamavano "grandi", senza il quale il dramma fatica sempre a concretizzarsi. E per fare ciò un regista dovrebbe saper ritrovare la grandezza stessa delle forze che devastano la complessità dell'uomo eternamente irrisolto.



Tags: Arturo Cirillo, Lo zoo di vetro, recensione, Sergio Buttiglieri, Tennessee Williams,
18 Gennaio 2014

Oggetto recensito:

Lo zoo di vetro, di Tennessee Williams, regia di Arturo Cirillo

In prima nazionale al teatro Menotti a Milano fino al 26 gennaio

Con Arturo Cirillo/Tom, Milvia Marigliano/Amanda, Monica Piseddu/ Laura, Edoardo Ribatto/ Jim

giudizio:



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