Al Teatro Duse di Genova fino al 30 ottobre va in scena il Don Giovanni, per la regia di Antonio Zavatteri: il suo allestimento resta fedele a un testo che tra bestemmie, morti, storie di assassini, di fame, di soldi e di religione non ha certo bisogno di rivisitazioni per risultare attuale
di Sergio Buttiglieri
foto di Bepi Caroli
Già l’inizio di questa piacevole regia di Antonio Zavatteri, vista in Prima Nazionale al teatro Duse di Genova, con la stessa colonna sonora di Stranger than Paradise (mitico film di Jim Jarmusch, premiato a Cannes nel 1984) è piacevolmente spiazzante. Là una coppia sconclusionata vagava on the road per gli USA in cerca della cugina di uno dei due. Qui invece una strepitosa coppia - parente con tutte le più riuscite accoppiate del nostro teatro - va in scena fuggendo dai parenti delle signore sedotte e abbandonate. E qui Molière sfrutta una delle più geniali e profonde intuizioni del teatro relativo, la dicotomia servo/padrone. Come ben ricordava Garboli (uno dei maggiori studiosi del commediografo a cui si deve anche la splendida traduzione adottata da quest’ultima produzione): “ai padroni spetta una cecità privilegiata, ai servi una intelligenza infruttuosa”. I padroni detengono il privilegio delle passioni, i servi quello del calcolo. In questo sofisticato meccanismo che usa a mo’ di pretesto lo schema comico per costruire una macchina metateatrale, Molière accumula un’infinita sovrapposizione di finzioni, convinto com’era che dalle “messinscene” non si può uscire.
Oggi però mettere in scena Molière come faceva la Comedie non ha più senso neppure in Francia. Se è vero che non c’è nessun bisogno di attualizzare i classici, spesso la difficoltà nel rimaneggiare copioni come questo sta nel fatto che dobbiamo ancora eguagliarli così come sono. Allora bene ha fatto Zavatteri a rispettare il testo originale: del resto se c’è un copione ‘che tira’ ancora oggi questo è il Don Giovanni, pieno di bestemmie, di morte, di onore, di assassini, di gioia, di fame, di soldi e religione. Una cocciuta sfida alla morte che parte dal fallo del protagonista, sempre eretto e sempre in lite contro il cielo.
Tutte le opere di Molière, in fondo, sono storie d’amore, un amore malato, burrascoso e tragicomico. E tutte vanno verso il fallimento, verso una fine miserevole. Non è forse anche quella del Don Giovanni, una lunga, unica storia d’amore? Fino all’apoteosi della stretta di mano che unisce il seduttore ateo alla statua di pietra, l’impenetrabile convitato. E se Sganariello, il bravo Alberto Giusta, è per tradizione un imprevedibile mostro di vitalità, il Don Giovanni egregiamente restituitoci da Filippo Dini, potrebbe essere un fascistello del Circeo, di quelli capaci di uccidere una ragazza con brividi di piacere.
C’è un inesplorato nesso tra il Don Giovanni e il Tartufo: entrambi parlano poco, recitano poco; sono gli altri che parlano per lui e di lui. “Che ne direste se vi dicessi che è il male a renderci intelligenti?” diceva Squarzina durante le prove di un suo singolare Molière/Bulgakov di alcuni anni fa.
Molière definiva il seduttore “marito del genere umano femminile”: se ci pensiamo bene, il Don Giovanni è indifferente all’individualità delle ragazze che seduce, di cui tiene un elenco impersonale, a differenza delle divinità greche che, più “selettive”, seducevano solo creature bellissime: lo sciupafemmine ha invece dalla sua un’energia esistenziale che si perpetua in una serie infinita di amori.
Magistrale, anche in questa nuova produzione genovese, la scena con il povero Francesco/Massimo Brizi sollecitato a bestemmiare in cambio di denaro: una situazione in qualche modo ripresa dai canovacci dell’Arte del primo seicento, lì trattato in chiave moralistica, qui invece trasformato da Moliere come manifesto dell’ateismo del protagonista che ne stempera la crudezza in una sorta di unica vera religione umana universale.
Di grande piacevolezza l’altra intramontabile figura della commedia, il signor Quaresima, lo spassosissimo Alex Sassatelli, sconsolato al punto giusto dall’arte sopraffina del protagonista a svicolare dalle sue legittime richieste creditorie. Ma il punto nodale nel mettere in scena il Don Giovanni, come ricordava anche Roland Barthes, è che solitamente tutto si sposta verso il clownesco delle comparse, a evidenziare gli sketch funzionali per evirare il personaggio edulcorandone l’ateismo e screditandolo in funzione di un pubblico benpensante e conformista. Forse in questo senso occorreva evidenziare meglio il ruolo del contadino Pierotto, interpretato da Massimo Brizi, che, con quella sua parlata genuina, con quel suo atteggiamento "ideale", non doveva essere ridotto a mero intermezzo leggero come invece appare anche in questa produzione della Compagnia Gank.
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Don Giovanni, di Moliere, regia di Antonio Zavatteri
fino al 30 ottobre al Teatro Duse di Genova
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