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TEATRO

Ionesco, l'assurdo 2.0

Tra gli eventi teatrali dell'anno che sta finendo c'è l'allestimento de La Cantatrice Calva, che ha inaugurato la stagione del Teatro Metastasio di Prato per la regia di Massimo Castri. In un coinvolgente crescendo, quella che sembra una farsa satirica sulla antica borghesia diventa una critica alla lingua che parliamo ogni giorno, sempre più priva di senso     


di Sergio Buttiglieri

 


Castri ha preso a pretesto il famoso testo di Ionesco, che tanto fece scalpore quando usci a Parigi nel 1950, (sette anni dopo la sua stesura) per raccontarci quanto il nostro linguaggio del 2011 sia svuotato di senso. Le due coppie, con i nomi e i cognomi uguali, che nel copione originale interagivano attraverso il linguaggio stereotipato dei corsi di inglese per stranieri, appaiono così ancora maledettamente attuali.
 
Anche per questo forse il teatro Metastasio di Prato, diretto da Paolo Magelli, ha intelligentemente inaugurato la sua stagione con il  capostipite del cosiddetto Teatro Dell’Assurdo, messo da parte per tanti anni per colpa delle sue posizioni politiche, non precisamente "militanti". Già al suo debutto, del resto, le perplessità dei critici erano state tante, forti della temperie brechtiana che percorreva l’Europa di quegli anni. Ionesco, come pure Genet o Beckett (autori questi ultimi a cui un po’ arbitrariamente associamo uno stesso modo di intendere il teatro) non erano attratti da quel tipo di rappresentazioni didattiche con dichiarate funzioni politico sociali, ma non per questo riuscivano meno incisivi sulla realtà del loro tempo.
  
Oggi, rivisto a anni di distanza, il nostro autore romeno appare sempre più profetico e di imbarazzante attualità. Il linguaggio delle nostre conversazioni è intriso di banalità, di frasi fatte, ossessionato dalla paura di dire qualche cosa di vero. A casa e al lavoro i discorsi che non siano prevedibili e sempre uguali sono così rari che la volta in cui qualcuno rompele righe viene accusato di vivere fuori dalla società. 
 
Valgono ancora anche le critiche allo sfacelo dei rapporti umani in cui ci imbattiamo ogni giorno, tutte "pettinate" allo stesso modo. Siamo apparentemente arricchiti da social network e consimili ma il livello medio delle conversazioni è quanto di più sconsolante si possa immaginare. E così, quando in questa anticommedia ritroviamo il marito seduto in poltrona che sfoglia nervosamente il giornale mentre la moglie lo sommerge di banalità, siamo tutti solidali con lui, senza riuscire a realizzare che l'una è l'alterego dell'altro. Uno specchio fedele dei devastanti rapporti umani che da sempre intercorrono fra le coppie: ieri il giornale, oggi l’ipad.
 
cantatrice calvaValentina_Banci,_Mauro_Malinverno.jpgNon è un caso che le famiglie, padri, madri, figli zii, si chiamino tutte con lo stesso nome. Erano e sono tasselli di un unico pensiero dell’assenza, svuotato di senso, che porterà i signori Smith, in quel famoso episodio di questa deflagrante pièce, a non ritrovarsi non dico come coppia, ma neppure come conoscenti.
 
L’interno molto inglese che tanto ci fa sorridere a inizio rappresentazione dà quel tanto di distacco registico che permette di osservare la scena con gusto entomologico, quasi come se fossimo immuni da tanto squallore. L’atrocità dissimulata del testo di Eugène Ionesco sta proprio in questa apparente parodia, sorretta dalla battuta, dalla recitazione e dall’immagine scenica, che è poi la sua fondamentale caratteristica teatrale: una parodia che mescola tragico e comico.
 
Castri, con la collaborazione di Marco Plini, ci costringe, battuta dopo battuta, a respirare a pieni polmoni questo senso dell'assurdo:  in più punti ci fa ridere di gusto, fino a farci percepire, in un crescendo ritmico di grande efficacia, che tutto quello che abbiamo appena visto forse non è poi così distante dalla quotidianità che ci circonda: ipertecnologica, e affollata di gadget, ma sempre più squallida, priva di emozioni vere. In definitiva, quindi, priva di senso.
 
Da un'archetipica famiglia piccolo borghese radicata nel suo salotto feticcio piombiamo in un loop in cui ogni significato si disperde se non si adegua a questa orrida ciclicità: ce lo dice Castri stesso nelle sue note di regia: ” ...è infatti nel collasso del linguaggio che si rispecchia questa crisi della relazione, questa progressiva perdita di senso...in questo mondo che ha rinunciato alla dialettica, alla lotta per il senso, le tensioni non più affrontate, non più assorbite, riempiono i vuoti del linguaggio, riemergono nelle pause del discorso, nel silenzio che scandisce i ritmi di questa continua vana chiacchiera ma riemergono in una forma primitiva, minacciosa, fino ad esplodere...”.
 
D’altronde non è un caso che il primo a difendere il testo di Ionesco dopo il suo debutto fu quel matto demolitore del linguaggio di Raymond Queneau, inventore pochi anni prima degli insuperabili Esercizi di Stile, vero piccolo scardinante capolavoro della letteratura francese del dopoguerra.



Tags: Eugene Ionesco, La cantatrice calva, massimo castri, prato, recensione, Sergio Buttiglieri, Teatro metastasio,
27 Dicembre 2011

Oggetto recensito:

 La cantatrice calva, di Eugene Ionesco, regia di Massimo Castri

 

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