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FILM

Amici Miei, non c'è Storia

C'è un equivoco dietro al discusso prequel della saga monicelliana: voler inquadrare le zingarate di Perozzi e compagni in un contesto di "toscanità" storica e che storica non è per niente. In realtà a fare grandi i tre film della serie fu un misto di malinconia e cinismo che alle gag di Neri Parenti sfugge completamente


di Igor Vazzaz


E così, eccolo nelle sale: nessun picchetto, nessuna manifestazione. Un’uscita come tante, né più né meno: Amici miei – Come tutto ebbe inizio, tributo a una delle più riuscite serie del nostro cinema, passerà alla cronaca (la storia è tutt’altro) più per le preventive polemiche, pretestuose e risibili, che per una qualsiasi motivazione estetica. E dire che l’investimento, quasi venti milioni di euro, non è mancato e che molti professionisti coinvolti non sono affatto di secondo piano. Le prime sequenze denunciano, come annunciato dallo stesso Neri Parenti, la volontà d’inquadrare l’omaggio a Monicelli e Germi in una cornice storica remota: per ragioni d’ingenuità, purezza, è stato detto e, aggiungiamo noi, per evitare impietosi paragoni con gli “eroi” originali. 
 
L’intonazione, complici i versi della voce fuoricampo di David Riondino, è ispirata a una toscanità rinascimentale, con alcuni richiami non privi di fascino, come l’epidemica pestilenza di decameroniana memoria. I protagonisti (Michele Placido, Paolo Hendel, Giorgio Panariello, Massimo Ghini e Cristian De Sica) sono introdotti uno a uno, mediante una serie di gag chiuse: niente di che, numeretti farseschi, in cui l’eco, comica e disperata, dei Mascetti, dei Melandri, dei Perozzi, è diluita in un’insolenza che si esaurisce nel macchiettismo. Attori incolpevoli: De Sica, benché passato alla Parte Oscura, è il nostro miglior brillante, Ghini la lieta sorpresa (il mascettiano Manfredo ha sangue e lodevole vigore), Hendel è a proprio agio. Placido e Panariello, per contro, si difendono come possono: l’uno gigioneggiando (ed è un peccato, se ne ricordiamo le ottime prove comiche nel Caimano di Moretti o in Le rose del deserto, l’ultimo Monicelli), l’altro appoggiandosi alla bonarietà regionalistica. Ed è proprio questo, in tutta probabilità, l’anello a non tenere, l’errore di valutazione che contribuisce a condurre l’intero progetto fuori strada. 
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Gli Amici miei originali erano commedie amare, rette sì sui singoli episodi, ma in grado di proporre una profondità di sguardi ben al di là dell’asfittica dimensione della beffa: in ballo c’era la morte, l’urgenza di dissacrare, esorcizzare tutto, la capacità, anche toscana, di filtrare il dolore attraverso un umorismo feroce. La collocazione regionale, idea geniale di Monicelli che però eredita un soggetto da Pietro Germi ambientato in origine a Bologna, non era il fulcro della questione: nel primo cast figurava addirittura un francese e l’unica voce fiorentina era quella, al doppiaggio, di Renzo Montagnani. Infine, se di comicità toscana si vuol parlare, quanto meno a livello spettacolare, la saga monicelliana va inquadrata come sorgente e non a conferma d’una tradizione che, se esiste, ha una dimensione più letteraria che altro.
 
A metà anni Settanta la percezione da parte dei connazionali circa fiorentini e genti limitrofe è assai più vicina a quella descritta da Malaparte in Maledetti toscani: gran rompicoglioni per nulla simpatici. Il toscanaccio sarà sdoganato anni dopo, proprio grazie ad Amici miei, senza dimenticare il Pinocchio comenciniano, ma, soprattutto, da Benigni e i Giancattivi (versione Benvenuti–Cenci–Nuti), veri pionieri d’una “tradizione” che molto deve, in parte, al loro gran talentaccio e, in parte, alla gran copia di danari investiti da Rita Rusic (pardon, Vittorio Cecchi Gori) nei loro, non sempre all’altezza, epigoni successivi. 
 
Centrare il prequel sulla fiorentinità è un abbaglio e l’incetta d’attori toscani, più o meno bravi, più o meno azzeccati, del casting denuncia ampiamente la portata del fraintendimento. Ci sono, è vero, episodi in cui si tenta di mordere un poco, anche qui la morte viene paventata, ma le cattiverie di De Sica e compagni sono anemiche, esangui, pochissima cosa rispetto all’atmosfera declinante e malinconica degli originali: in fondo, per quanto fossero commedie, la prima chiudeva con un funerale (poi svolto in beffa), la seconda con un Tognazzi reso invalido. Tutt’altra pasta rispetto al Quattrocento patinato e volgaruccio di Parenti. Perozzi e compagnia erano gli interpreti di un’amicizia incrollabile e spietata, in cui la dissacrazione aveva luogo proprio perché in presenza di qualcosa da dissacrare: senza tragedia, resta solo il lazzo, lo sberleffo. I vecchi Amici stavano dalla parte del Gioco, che è bambino, eterno e sacro; questa brigata, invece, è ancorata allo Scherzo, adulto, inerte, anche, e soprattutto, quando tocca il volgare.
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Non avendo nutrito preconcetti sull’operazione (da che mondo e mondo, nell’arte si citano altre opere, e questo non intacca mai, in nessun modo, gli originali), è altresì doveroso segnalarne l’indiscutibile fallimento: a Come tutto ebbe inizio manca un soggetto vero (al di là delle firme di Benvenuti, Pinelli e De Bernardi, probabile che gli autori aggiunti v’abbiamo, purtroppo, messo del loro), manca una sceneggiatura che regga, e manca un’anima. In un certo senso, ci ricorda altri due film, di livello differente, anch’essi toscaneggianti: Non ci resta che piangere, di cui condivide l’ambientazione storico-geografica, ma non la genialità assoluta delle gag in grado di rendere fenomeno di culto una pellicola in sé assai sgangherata; e il Pinocchio di Benigni, come tentativo fallito di confronto con una fonte originale rimasto a lontano miraggio.
 
Valgono però a poco le accuse di lesa maestà da parte dei fan, i primi a tradire, nello spirito, l’amata saga: tre film che ci hanno insegnato, facendoci ridere e commuovere, come niente al mondo esista di non dissacrabile (proprio perché sacro), non possono certo incorrere nel paradossale travisamento d’esser considerati intoccabili. Come tutto ebbe inizio, sedicente tributo a un modello mai raggiunto, è un’opera mancante: di forza, di spregiudicatezza, d’inventiva. Non ha neppure il cattivo gusto, accusa preventiva che gli veniva rivolta, dei vituperati cinepanettoni… La storia non lo sfiorerà, seppellito come sarà dalla cronaca, senza neppure l’onore di un’autentica risata.



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22 Marzo 2011

Oggetto recensito:

Amici Miei. Come tutto ebbe inizio, di Neri Parenti, Italia 2011, 108 m

A favore: la fotografia di Luciano Tovoli, uno che ha lavorato, tra gli altri, con Antonioni, Bunuel, Argento; ma è poco per salvare il resto
A sfavore: la musica; i temi modali di Andrea Guerra non reggono affatto il confronto con i capolavori (malinconici) di Carlo Rustichelli
Toscani (celebri) coinvolti: Paolo Hendel, Giorgio Panariello, Massimo Ceccherini, Barbara Enrichi, David Riondino, Pamela Villoresi, Alessandro Benvenuti, Chiara Francini
I ritrovati: Giorgio Ariani, Alessandro Paci, Andrea Muzzi
(Grandi) Assenti: Benigni (scontato), Pieraccioni e, soprattutto, Carlo Monni; non che sia una male per loro. Aggiungeremmo Ugo Chiti, come autore, ma una sua riscrittura di Amici miei sarebbe stata troppo bella per i canoni della produzione
Ipse dixit: «[…] dove e quando gli altri piangono, noi [toscani] ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra. […] Basta l’apparizione di un toscano, perché una festa, un ballo, un pranzo nuziale, si mutino in una triste, tacita, fredda cerimonia. Un funerale al quale prenda parte un toscano, diventa un rito ironico: i fiori si mettono a puzzare, le lacrime si seccano sulle gote, le gramaglie cambian colore, perfino il cordoglio dei parenti del morto sa di beffa» (Curzio Malaparte, Maledetti toscani, 1956)
Il giudizio: un film la cui medietà (per non dir mediocrità) è tale da non meritare neppure i tre o quattro ombrelli

giudizio:



9
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