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FILM

Il meglio del 2013: il cinema
Stanchi delle classifiche di fine anno? Non ne potete più dei siti che vi propinano le migliori opere del 2012? Giudizio Universale guarda avanti: in esclusiva per voi ecco le migliori opere dell'anno prossimo! Capolavori che non sono stati girati, e che non lo saranno mai: li hanno immaginati i nostri recensori di fiducia. Perché il meglio, come sempre, deve ancora venire


di Marinella Doriguzzi Bozzo, Dario De Marco, Simone Dotto

 


ART-THRILLER
La struttura dell'aria, di Peter Greenaway, Gran Bretagna/Italia, 103 minuti
"L'anno moriva, assai dolcemente..." e l'architetto Cultrera, divenuto celebre in quanto riedizione aggiornata e corretta del dandismo dannunziano, contempla la città di Roma che si stende ai suoi piedi nell'incedere del crepuscolo. In realtà, riesamina la sua vita, inconsapevole che la lettera d'incarico appena ricevuta ne svelerà l'unico segreto mai confessato a nessuno. Raggiunta Torino, affronterà uno strano committente dall'io diviso, che approva di giorno e disfa di notte i progetti proposti, approfittando di ogni anfratto dell'antico palazzo per seminare indizi inquietanti, in un gioco che è tanto una sfida all'ingegno quanto una trappola di depistaggio del colpevole. Approfittando del contrasto tra la solarità per giustapposizioni successive di Roma e l'apparente uniformità schematica di Torino, città al vertice della magia europea, il regista Greenaway mette in scena un racconto inquietante che sembra scritto da Carmelo Samonà (Fratelli,1968) insieme a Friederich Dürrenmatt (La panne,1956). E nel contempo riflette sul rapporto tra il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti e la Divina commedia di Dante Alighieri, perché l'inconsapevole Cultrera è altresì chiamato a ricostruire un edificio che è in realtà una catacomba di dannati atemporali, con ogni avello funzionale alla specifica pena. Sebbene da sempre Greenaway sia abituato al tema dell'arte (I misteri del giardino di Compton House, Il ventre dell'architetto) e a quello del doppio (Lo zoo di Venere) sembrava difficile che un regista gallese potesse penetrare così a fondo nel composito spirito italiano, realizzando un film di nitore palladiano, in grado di dosare sapientemente l'intrattenimento popolare del thriller con un intellettualismo esasperato, ai limiti dell'autoannientamento per eccesso di sofisticazione. Eppure la scommessa è vinta grazie ad un equilibrio tra l'algebrico e il sontuoso, il classico e il barocco che trova il suo punto di massima sintesi nella terribile scena della scala, i cui estremi si attorcigliano piranesianamente, contrapponendo i due contendenti, che forse non sono due... Intanto la colonna sonora di Michael Nyman lusinga lo spettatore e poi lo terrorizza, mentre la macchina da presa sembra gassificare la realtà in omaggio al titolo del film, alternando la fotografia ai geniali bozzetti grafici dello stesso regista, in una concentrazione rara di talentuosità multiple.
(Marinella Doriguzzi Bozzo)

 

ANIMAZIONE
Cappuccetto Rosso 3, di Alejandro González Iñárritu, Usa, 99 minuti
Una serie incredibile di prime volte. La Disney tra i tanti classici non aveva mai (e dire che il barile delle favole lo ha ben grattato) fatto Cappuccetto Rosso, se non in cortometraggio. Qui rimedia, ma tramite la longa manus della Pixar: altra sorpresa, non erano loro che avevano giurato guerra al “tratto da”? Infine, l'esordio animato diIñárritu. Chi ha apprezzato il ritmo e l'intreccio (sic) di Rapunzel, misurando la notevole distanza non solo dal prototipo Biancaneve ma anche da rifacimenti molto più moderni come La bella e la bestia, si prepari a un altro balzo in avanti qui: tre storie di tempi e luoghi diversi si intersecano, nel più puro stile del regista di Amores perros, 24 grammi e Babel. La vicenda di Cappuccetto, quella dei tre porcellini, quella (lunga secoli) del lupo mannaro: è lui il fil rouge tra le due precedenti, e il vero protagonista di questo noir appena appena mascherato. Il finale, anche se copiato dalla riscrittura in versi che ne fece Roald Dahl, sorprende sempre: ed è più cattivo che mai.
(Dario De Marco)
 
CINEPOLPETTONE
Natale in Cosmogonia, di Terrence Malick, Italia/USA, 382 minuti
Gli ultimi dodici mesi hanno visto maturare serie prese di coscienza all’interno della cinematografia tutta, d’autore come di genere, italiana come internazionale. Nel belpaese De Laurentiis e collaboratori sono stati costretti ad annunciare la morte del cinepanettone così come lo conoscevamo. “Abbiamo provato a farne di sempre più grosse – ha dichiarato malinconicamente il produttore – ma ormai è finita: una cazzatona da sola non basta più a vivere di rendita per tutta la stagione”. Dall’altra parte del mondo - anzi, proprio in tutt’altro mondo - il regista texano realizzava da par suo che a forza di kolossal metafisici si fa incetta di premi ma non si arriva comunque a mangiare il panettone. Proprio da quest’ultima considerazione la scintilla: e se i due generi (nda: Terrence Malick è stato nel frattempo riconosciuto genere a sé dalla Academy, su pressione degli innumerevoli attori tagliati dalle sue pellicole, decisi a essere risarciti almeno concorrendo alla statuetta per il “Best Malick”) si facessero uno solo per darsi man forte? Detto fatto: spiazzando critici e pubblico, De Laurentiis scrittura il cineasta-filosofo in fuga da Hollywood e gli affida la bozza di un soggetto ereditato da Neri Parenti poco prima che gli fosse dato il benservito. Natale a Cosmogonia, appunto, dove cosmogonìa sta sì ad indicare la nascita dell’universo mondo - qui magistralmente raccontata fin dalla prima esplosione nel nulla assoluto – ma è anche un nome proprio, quello di Cosmogònia, l’avvenente badante rumena per cui l’anziano ingegner Pomponazzi (Massimo Boldi) ha una forte infatuazione. Alle gag del rocambolesco viaggio nello spaziotempo dell’ingegnere per raggiungere l’amata si alternano lunghe e ravvicinate riprese a un raro esemplare di tartaruga marina, chiaro simbolo della Saggezza demiurgica scesa in terra. Memorabile la sequenza in cui Pomponazzi, in preda a una gastrite improvvisa, si piega sulle ginocchia al rallentatore mentre una voce fuori campo declama “sono la vecchiaia del mondo intiero” e altri versi di rara solennità. Doveva essere anche il titolo di riconciliazione per la coppia Boldi De Sica, di cui Malick si è detto ammiratore della prima ora, ma all’ultimo minuto la parte dell’attore romano è stata tagliata al montaggio. Notevole invece il cammeo di Arisa nei panni della Madre Terra. “Te lo dò io il buco nero” è la battuta del film, e la pronuncia il regista in persona con lo sguardo fisso in camera. Innovativo ed esilarante.
(Simone Dotto)
 
DI FORMAZIONE
Subjection, di Peter Weir, Australia/Nuova Zelanda, 120 minuti
Dopo anni di alti e bassi ritorna l'indimenticato regista di Picnic a Hanging Rock (1975), Un anno vissuto pericolosamente (1982), Witness (1985), L'attimo fuggente (1989), The Truman show (1998), Master and Commander (2003). E lo fa ambientando la storia di un gruppo atipico di studenti geniali nell'unico college della cittadina neozelandese di Christchurch. Testimone intraprendente, euforica e poi disperata la diciottenne italiana Alessandra, arrivata agli esotici antipodi grazie ad una borsa di studio. Il film mischia abilmente l'atmosfera amical amorosa del sestetto con l'arroganza di chi si sente superiore per bellezza e cultura, fino a confondere i confini del bene e del male, in un vortice di confidenze, fiducia, abbandoni, tradimenti, sullo sfondo di una natura abnorme che sembra riecheggiare le insidie nascoste nell'ambivalenza degli animi. Inventando un'informatica di tipo avveniristico sullo sfondo di una giovinezza che non potrà sbocciare nella maturità, Peter Weir saccheggia Poe ibridandolo con le immagini di una suspence alla Hitchcok, mentre il leit motiv della letteratura classica (da Guerra e pace alle poesie di Shelley e Keats) entra a far parte dei plurimi enigmi da sciogliere, prima della sorpresa finale. Succede sempre più difficilmente che un copione dal meccanismo perfetto si sposi tanto abilmente con la caratterizzazione dei singoli personaggi, sfidando limpidamente lo spettatore su più fronti, dai misteri dei singoli protagonisti all'orrore quotidiano dei comprimari come delle comparse, in un incalzare degli eventi dal piglio wagneriano. Magnifiche le atmosfere improntate al gotico inglese del diciannovesimo secolo e nel contempo rivisitate dall'ingenuità di un mondo imbastardito da una colonizzazione promiscua; folgorante la fotografia, tra il dagherrotipo e l'iperrealismo. Indimenticabile l'epilogo esistenziale sulla consapevolezza di quanto avrebbe potuto essere, non è stato e non tornerà.
(Marinella Doriguzzi Bozzo)

 



Tags: Dario De Marco, immaginari, Marinella Doriguzzi Bozzo, recensioni, Simone Dotto,
20 Dicembre 2012

Oggetto recensito:

IL MEGLIO DEL 2013

LIBRI (di Giuseppe De Marco, Giuseppe Grattacaso, Stefano Nicosia, Dario De Marco)
ARTE (di Mirko Nottoli, Riccardo Bonini, Anna Colafiglio)
FILM (di Marinella Doriguzzi Bozzo, Dario De Marco, Simone Dotto)
TEATRO (di Giulia Stok, Nicola Arrigoni, Igor Vazzaz)
MUSICA (di Federico Capitoni, Simone Dotto, Marco Buttafuoco, Dario De Marco, Giovanni Desideri)

giudizio:



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