L'allestimento firmato da Danio Manfredini della grande opera (meta)teatrale di Shakespeare è minimale e interpretato da attori maschi e mascherati proprio come nell'epoca elisabettiana. Pochi marchingegni di scena ma abbastanza genio da convincerci che riportare in tour i classici può essere ancora utile
di Sergio Buttiglieri
Ogni volta che ritorna in scena Amleto, ci percorre il dubbio che forse su questo testo si è già detto tutto, e spesso lo si è fatto male. Che forse sarebbe semplicemente meglio rileggersi il testo di Shakespeare invece di rischiare inquinarne la memoria con l’ennesima produzione malriuscita.
Ma sapendo quanto sia radicale nelle intenzioni il teatro di Danio Manfredini, (ricordo ancora come fosse ieri il suo straordinario e lacerante Cinema Cielo del 2003 o il suo fulminante, Tre studi per una Crocifissione del ‘92, appena transitato a La Spezia per la meritevole rassegna Fuori Luogo) non si poteva mancare a un nuovo appuntamento, se non altro per sapere che cosa avesse combinato questo autore perfezionista del malessere sul personaggio nichilista per eccellenza, Amleto appunto. Secondo lui ciò per cui riusciamo a trovare le parole è già morto dentro al nostro cuore e vale la pena dire solo ciò che non può essere detto.
La precisa gestualità a scatti controllati, le maschere bianche, che immobilizzano le espressioni degli attori e ce le rendono ancora più significanti, come sapevano bene i protagonisti delle tragedie nell'antica Grecia. Il regista ci immerge in quadri viventi, fatti di
Ogni volta che Amleto rivive in scena, e questo Manfredini lo sa, si compie l’ennesima autocoscienza dell’uomo occidentale. Pur assistendo ai suoi efferati crimini siamo disposti a perdonarlo. Perdoniamo Amleto proprio come perdoniamo noi stessi, quando il Teatro traghetta, attraverso l'opera di Shakespeare, l’occidente nel mondo dell’autoanalisi.
Come all’epoca di Shakespeare la scena è un luogo che sta per il mondo intero, e non si ha un reale bisogno di scenografia, se non quella verbale che appunto conferisce materia immaginaria ai pochi oggetti sul palco. Basta una pioggia di coriandoli o sufficiente con un manichino legato ad una corda che si allontana e si avvicina al suo corpo dell'attore; oppure tre semplici veli colorati che gli saltano fra le mani colpiti da una luce fatata, o facendoci comparire una crocifissione caravaggesca su trampoli, con un retrogusto testoriano.
La sua Ofelia, interpretata da un maschio, come lo era d’altronde in origine, è una sorta di carillon per l’asprezza meditativa di Amleto, e ci conduce nel teatro della mente del tormentato protagonista. La Regina, anch’essa efficacemente interpretata da un attore rimprovera Amleto davanti ad un semplice telo che rappresenta un minimalismo barocco stupefacente, molto più d'effetto di mille costose trovate registiche.
L’elemento più enigmatico dell'opera è forse il fatto che il padre di Amleto renda il proprio figlio un orfano, un "malato". Manfredini ce lo mostra in carrozzella, mentre recita il suo più famoso monologo, oppure anche in una spassosissima scena in cui impartisce le regole del recitare ai suoi improbabili attori. Qui Amleto scruta le reazioni degli usurpatori al cospetto della sua messinscena, attraverso i registri comici della sua scalcagnata Compagnia che ricorda da vicino il teatro di strada, con tanto di manichino di kantoriana memoria.
Dopo tanti scialbe produzioni, finalmente un Amleto che ci ricorderemo per esemplare capacità di arrivare all’essenza del testo, attraverso una profonda analisi di quello che il teatro nella sua destabilizzante corporeità può essere oggi per noi, drogati di effetti speciali: il coraggio di tradire Shakespeare per farcelo meglio comprendere in tutta la sua grande poesia.
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Amleto di William Shakespeare, regia di Danio Manfredini
Prossimamente: 1 e 2 giugno, Teatro Storchi, Modena
Tre Studi per una Crocifissione: in scena fino al 17 maggio al Teatro della luna di Assago.
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