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ritratto di Gianluigi Ricuperati
di Gianluigi Ricuperati

Joan Didion e la freddezza gentile


Vorrei parlare della scrittrice che amo più al mondo. Vorrei parlare di Joan Didion. Joan Didion ha più di settant’anni, nella letteratura in lingua inglese è considerata un punto cardinale. Ha frequentato sia la finzione che la non-finzione. In Italia le sue cose sono pubblicate da Il Saggiatore. Quando mi trovo davanti a un problema, di tecnica, di attitudine, di personaggio, di scena, di esistenza-nella-scrittura, mi rivolgo a lei come se non ci fosse più, con una preghiera.
Il mio grande amico Hans Ulrich Obrist, che non è uno scrittore ma un curatore, forse il più importante e furioso curatore nell’arte, oggi, un folletto longilineo che vive di una demonica curiosità, aveva manifestato l’intenzione di intervistarla – let’s interview Joan Didion. Così un giorno l’ho avvicinata, sempre a New York, durante una festa di un editore, e stavo per farmi introdurre e proporle l’intervista. Ma era terribilmente fragile – la pelle translucida di certi anziani, gli occhi mobilissimi. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un’ostia. Nella religione del romanzo, oggi, Joan Didion è per me il pane da spezzare: ma non ero ancora pronto per comunicarmi, così ho lasciato perdere.

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Ho letto Pacific Days, un mediamente lungo testo contenuto in After Henry, collezione di storie e narrazione tra fiction e non fiction, intitolato a ”causa di” (after significa sia “dopo” che “a causa” quando precede un nome proprio) Henry Robbins, leggendario editor che l’aveva seguita per anni nel suo lavoro di scrittura.

Pacific Days è interessante perché ripete in modo virtuosistico una scelta strutturale che già in altri testi della Didion si vede all’opera, cioè la giustapposizione di filoni di inchiesta su vari aspetti del mondo esterno a partire da esperienze autobiografiche dell’autrice, ma senza scivolare mai nel memoir vero e proprio. Come se l’esperienza autobiografica – l’acquistare una casa a Los Angeles, o il venderla, o il frequentare per anni Honolulu – fosse il trampolino e il “resto del mondo” lo spazio concavo, avventuroso, della piscina: uno spazio da esplorare, cui affibbiare frasi, intuizioni, shift d’indagine conoscitiva e linguistica. I diversi filoni, in questo particolare caso, sono legati dal tratto comune di un’appartenenza geografica: la presenza del Pacifico, il lambire o l’esser circondati dall’oceano: l’attraversarlo o il temerlo, il cambiare la propria vita a causa dell’oceano. Il testo è degli anni settanta ed è ambientato negli anni settanta, grosso modo. Si parla del mercato immobiliare alle Hawaii – bellissima descrizione del fee simple, la condizione che caratterizza le compravendite di case libere da vincoli finanziari vessatori, in quello stato americano per decenni dominato da connessioni economiche di tipo feudale (fino agli anni sessanta il 15% della terra era di proprietà dello stato federale, il resto di proprietà di poche grandi famiglie, o fondi immobiliari, della costa Ovest o Est degli Usa, e ogni compravendita prevedeva un fee per i precedenti “colonizzatori”).

Ma si parla anche di una struttura di ricerca sul nucleare dell’Università di Berkeley, dove si progettano e pensano alcune avanzate “soluzioni” militari proprio accanto alle aule dove professori radical e studenti contestatori discutono – proprio dove l’autrice insegna scrittura creativa, e dove aveva vent’anni prima frequentato una classe di scrittura creativa.
Il meccanismo dello shift anima proprio queste congiunzioni, i passaggi da un filone all’altro, contenuto, ciascun filone, nell’adeguato spazio di un paragrafo (ce ne sono sei). L’ultimo dei quali, dopo vari passaggi di stato, di ambiente, di area di riflessione e racconto, è un affondo sull’altra parte di ogni discorso “californiano” sul Pacifico: l’altra sponda dell’Oceano, appunto: il sud-est asiatico: Honk Kong, a dieci ore di volo da Los Angeles, dove a partire da un’altra memoria autobiografica Joan Didion testimonia e intreccia i fili delle vite di un gruppo di boat people vietnamiti in attesa del visto per la Francia, o per il Canada, o per gli Usa.
La freddezza gentile, l’accumulo di dettagli giornalistici trasfigurati nel giro di una frase in materiale per un giro di vite poetico su ciò che si sta raccontando; la capacità di rendere conto della complessità di un territorio inchiavardandolo nelle micro linee delle storie umane e nelle macro linee della Storia e della Politica, senza illusioni, senza dimostrazioni di forza e senza dispense di fragilità esibita; la precisione musicale e figurativa di una prosa che non si ritira e non aggredisce (uno dei problemi di tanti autori di non-fiction, forse perché molti sono maschi, è l’eccesso un po’ ridicolo di eroico testosterone: io sono andato qua, io ho vinto le barriere, io ho spezzato le catene…). Questa è la peculiare lezione narrativa di una scrittrice che ritengo uno dei quattro o cinque maestri viventi della letteratura al mondo.

8.505
Media: 8.5 (4 voti)

Inserito da Gianluigi Ricuperati - 3 gennaio, 2010 - 23:28


Commenti

Non basta leggerlo una volta

7.02

Non basta leggerlo una volta per cogliere il senso e la profondità di cui Ricuperati è capace. Sulle prime può sembrare difficile, ostico. Volutamente contorto. Ma non lo è. C'è una grande dose di amore, ammirazione, elogio del cuore in questo pezzo. E arriva tutto da un'esperienza vissuta, solo che poi si va molto oltre. è come se fosse riuscito a penetrare l'ostia senza spezzarla. L'ha tenuta in mano, l'ha accarezzata, ha guardato attraverso. Ma non l'ha rotta. Ed è raro che si scriva con tanta competenza e allo stesso tempo con tanto sentimento. Sentimento che non emerge come infantile entusiasmo, ma come comprensione reale di una donna che si fa scrittura. La metafora della piscina è bella, originale e calzante. Scrittura visiva applicata a un personaggio che viene davvero voglia di scoprire.

adoro l'anno del pensiero

9

adoro l'anno del pensiero magico|

Bellissimo! Grazie

9

Bellissimo! Grazie

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