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ritratto di Emiliano Morreale
di Emiliano Morreale

La morte a Venezia


Tra le cose che colpivano alla Mostra di Venezia, una è la nostalgia, nei registi americani presenti, più o meno giovani, del cinema nouvelle vague, o del nuovo cinema americano anni Sessanta - Settanta. La voglia di libertà, di creare personaggi sconnessi dal mondo circostante, su tempi dilatati, in posizioni fieramente anti-spettacolari, con una presenza molto sensibile di uno sguardo d’autore. 
 
Somewhere di Sofia Coppola recupera (come già Lost in translation), in maniera elegante e cool, un tipico personaggio da film “modernista” nouvelle vague, che osserva sgomento il mondo intorno a lui, mentre piccole e grandi gag gli ruotano intorno. 
 
Reek’s Cutoff di Kelly Reichardt ricorda i vecchi western “metafisici” anni sessanta di Monte Hellman (a sua volta presente al Lido con un film di coerenza totale rispetto a quarant’anni fa), come La sparatoria o Le colline blu, muti o senza avvenimenti. Qui una famiglia di coloni vaga nel deserto dell’Oregon, senza meta e senza molto da dire, mentre l’obiettivo nega anche la spettacolarità visiva del paesaggio, scegliendo per inquadrarlo non l’immagine panoramica ma un formato piccolo, quadrato, da cinema muto. 
 
Promises written in the water di Vincent Gallo è un film lugubre e auto-riflessivo un po’ petulante, con scene ripetute e inquadrature di dettagli del corpo femminile, e un narcisismo ingenuo che ne fa uno di quei film destinati al massacro da parte di pubblico e critica. 
 
Eppure, questo ritorno alla libertà impossibile dei registi indipendenti di mezzo secolo fa non sembra proiettato in avanti, non dà un senso di libertà, ma di profonda malinconia. I titoli citati sono tutti film di morte, forse inevitabilmente. Nemmeno di angoscia o di crisi, come potevano essere certi noir o western degli anni settanta, con personaggi nevrotici violenti e tempi e visioni che si accavallano; ma proprio di paura e amore della fine. Road to Nowhere, come recita il titolo del film di Monte Hellman.



Inserito da Emiliano Morreale - 13 settembre, 2010 - 16:21


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Il sonno del cinema di mezza estate


Il sonno del cinema di mezza estate, con sale chiuse e arene che ripropongono i film dell’inverno, è rotto a forza solo dalle apparizioni di megaproduzioni americane che devono uscire contemporaneamente in tutto il mondo per battere sul tempo la pirateria via Internet. E siccome negli Usa l’estate è da sempre una stagione d’oro, anche l’Italia va a rimorchio con apparizioni di vari blockbuster tra i quali però, non dimentichiamolo, c’è il nuovo, ennesimo capolavoro della Pixar, Toy story 3. (leggi la nostra recensione)
 
Ma a parte tutto, il segno caratteristico di questa estate di (non)-cinema è l’inaugurazione ufficiale di una stagione che nessuno avrebbe mai immaginato di vivere: quella dei remake di film e telefilm anni ottanta. Dopo i tardi anni settanta di Charlie’s Angels, Starsky e Hutch, ormai la nuova fase è scattata. Prima avvisaglia, il remake di Scontro di titani, già improbabilissimo all’epoca con i trucchi postremi del grande Ray Harryhausen. Ora è imminente l’uscita di Karate Kid (da noi la prima versione si chiamava Per vincere domani: “Togli la cera, metti la cera”). E a seguire, Scuola di polizia e Ghostbusters
 
In definitiva, non proprio remake di classici, piuttosto di brutti film di successo o di pellicole teneramente datate. Del resto, all’epoca si diceva che gli anni ottanta erano “manieristi”, erano già essi stessi gli anni “dei remake” (se ne facevano a decine ogni anno, è vero). Ma la legge dei vent’anni, che vuole il ritorno delle merci visuali appunto ogni due decenni, non ammette eccezioni. 
 
Il passato si ripete due volte, diceva qual tale. Un suo allievo aggiungeva: la prima come tragedia, e la seconda come farsa. E cosa succede quando è una farsa già la prima?



Inserito da Emiliano Morreale - 30 luglio, 2010 - 13:18


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Boris è finito, viva Boris!


Anche la terza stagione di Boris, serie tv della piattaforma Sky, è finita. Mentirei se dicessi che la terza e la seconda serie sono state all’altezza della prima, una vera rivelazione che colpi dapprima pochissimi felici e poi si allargò per forza del passaparola. Ma si tratta pur sempre del miglior prodotto televisivo italiano del decennio, l’unico che possa stare alla pari con serie americane tipo Scrubs o la primissima Friends
 
Anzi, Boris personalmente lo trovo preferibile ai colleghi americani perché è un nipotino della commedia all’italiana, e non della tradizione della commedia screwball. E quindi ci somiglia e ci colpisce più da vicino, proprio culturalmente. Quel che fa ridere in Boris non è il privato, ma il pubblico. Non i personaggi e i loro ritmi, ma la precisione e la cattiveria nell’osservazione di costume.
E poi, la serie dice la verità definitiva sulla cialtroneria della televisione italiana (e, mediatamente, del cinema), sul suo asservimento, la sua pigrizia e il suo squallore senza rimedio. A chi vorrà capire la fiction televisiva contemporanea, tra vent’anni converrà studiare non i libri e gli studi dei massmediologi e dei sociologi della comunicazione, ma dare semplicemente un’occhiata a Boris. C’è tutto. 
 
La prima serie di Boris è superiore a qualunque commedia italiana di questi anni, compresi Virzì o Verdone. Perché ha la perfidia dei nuovi arrivati, finché, nelle due stagioni successive, si è seduta sulle proprie stesse trovate, si è istituzionalizzata, ha cominciato a soapizzarsi e “raccontare storie”. Eppure in quasi ogni puntata ha continuato a esserci un’idea, una zampata, un momento memorabile che la riscattava. 
 
Ora è annunciato il passaggio di Boris al cinema. Ci auguriamo di ridere come non abbiamo mai riso in una sala cinematografica in questi anni. Ma anche se non dovesse accadere, è già tanto quello che gli autori della serie (Luca Vendruscolo e Mattia Torre) ci hanno dato. Viva Boris!



Inserito da Emiliano Morreale - 4 maggio, 2010 - 12:35


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Famiglie


Le famiglie alto borghesi di quarantenni in crisi di Baciami ancora, in cui alla fine la prima moglie non si scorda mai. Un padre maneggione di mezza età che si ripresenta al Figlio più piccolo, nell’omonimo film di Pupi Avati (spacciato, come gli ultimi suoi, come un film tratto da un suo romanzo, anche se sembrano piuttosto delle novelization camuffate). Una adolescente racconta la separazione dei genitori, il rapporto con la nonna, il fratellino eccetera in Genitori e figli: agitare prima dell’uso di Veronesi, le due famiglie alle prese con il matrimonio dei figli adolescenti in Happy Family di Salvatores, il ritorno in una famiglia del Sud di un figlio gay in Mine vaganti di Ozpetek, l’orrenda famiglia romana contemporanea dell’ultimo film di Verdone, l’algida famiglia alto-borghese milanese di Io sono l’amore. E poi la mamma di La prima cosa bella, il papà di L’uomo nero, il nonno il papà e il figlio di Baària, e andando indietro l’amore paterno di Angelini, le mamme e le figlie di Comencini-Monteleone, i cugini-coltelli di Ficarra e Picone, i fratelli alla ricerca del padre ne La casa sulle nuvole di Giovannesi.
Altri sicuramente ne dimentico.
 
Non credo che la presenza delle famiglie all’interno del cinema italiano di oggi abbia niente di paragonabile nel cinema internazionale di oggi. Proprio mentre la famiglia tradizionale si avvia a scomparire: le famiglie con più di un figlio sono una rarità, i single sono la grande maggioranza della popolazione, un figlio su tre nasce tecnicamente fuori dal matrimonio.
 
Perché questa ossessione, dunque, in registi di generazioni anche diverse?
La famiglia come luogo in cui funzionano meglio, pigramente, i meccanismi delle commedie nostrane?
La famiglia medio-borghese come simbolo e sintomo dell’assenza di curiosità dei nostri registi?
Una forma criptata di esorcismo, nostalgia? (Le famiglie raccontate con maggiore emozione, sono ovviamente quelle del passato.)
Le famiglie sono davvero il luogo dell’Italia, il luogo in cui tutto ancora si coagula, la rovina e la salvezza economia e sociale del nostro paese?
Sarà attendibile l’immagine del nostro paese, ipoteticamente affidata a questi film e ritrovata dai proverbiali archeologi tra, senza esagerare, venti anni?



Inserito da Emiliano Morreale - 1 aprile, 2010 - 12:07


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Il doppio salto indietro di Avatar


Avatar, dunque. Successone in tutto il mondo e anche da noi (pur considerando un 30% in più di incassi dovuto al prezzo delle sale 3D). Bisogna andarlo a vedere, bisogna parlarne. Cosa dire? Che il film è spettacolare e la storia stupidissima, come hanno detto tutti? 
Certo, dicono i cinici, alla fine è Un uomo chiamato cavallo. E anzi i disegnatori di South Park, con perfetto tempismo, hanno tirato fuori una storia in cui Peyo, l’inventore dei Puffi, denuncia James Cameron per plagio perché in effetti la storia degli omini blu che vivono nei funghi e vengono attaccati da un umano che mette tra loro dei finti puffi l’avevamo già sentita. Ma tanto gli unici a prendere per buona la fuffa new age del film sono i soliti del Manifesto.
Però bisognerebbe anche aggiungere che la stupidità della narrazione è perfettamente progettuale, funzionale al film. Avatar segna infatti, nel suo vertiginoso salto in avanti, oltre la morte del cinema, anche un doppio salto indietro. Verso uno spettatore ormai completamente bambino, e verso un cinema che è quello delle origini, prima che diventasse racconto ed era solo, come dicono gli storici, “cinema delle attrazioni”. Gli spettatori postmoderni fanno oooh come lo facevano i primi spettatori dei Lumière vedendosi arrivare addosso il treno, prima che il cinema diventasse erede del romanzo ottocentesco.
Quello che più sconcerta, nel film, è la mancanza di ingenuità, quell'incorporare già la propria metafora facendoci vedere un protagonista che vive un’esperienza simulata, vicaria, vissuta attraverso un marchingegno appena più sofisticato di quello che ha prodotto il film stesso. E il finale, nel quale il protagonista cede le proprie spoglie mortali per diventare il proprio avatar, è una promessa allo spettatore, una rassicurazione al bambino che nel frattempo lo spettatore deve essere diventato.



Inserito da Emiliano Morreale - 2 marzo, 2010 - 12:52


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La commedia all'italiana è morta, viva la commedia


La "commedia all’italiana", nei discorsi di critici e giornalisti, non è più un genere, o un filone. È un’ideologia. Un modello che è spesso strumentale a una negazione della tragedia, alla riproposizione di attori comici di secondo piano, di sceneggiature che castrano ogni sguardo. Un modello che assurdamente viene proposto a quarant’anni di distanza, e dopo che per oltre quindici anni i suoi migliori registi non avevano fatto che negarla nella tragedie più cupe o apocalittiche, da Un borghese piccolo piccolo a L’ingorgo. 
 

Per fortuna quei pochi che riescono a fare buone commedie in Italia lo fanno andando in direzione contraria. L’ultimo film di Carlo Verdone, o almeno la sua prima ora (prima che arrivi il solito schema del signor di mezza età, stavolta prete, alle prese con la ragazzina) è una delle cose più cupe che ci sia dato di vedere in giro sull’Italia – e, stavolta, su Roma in particolare. Gente orrenda, famiglie orrende soprattutto, in cui sesso soldi e consumo impazzano in maniera caciarona e gelando il sorriso sulle labbra.
In questa specie di remake de La messa è finita si può forse anche misurare quanta strada si sia fatta, in discesa, perfino dagli orribili anni Ottanta. L’egoismo pensoso dei personaggi di Moretti lascia il posto a una borghesia senza nemmeno la dignità della tragedia. Non stupisce che, davanti al terrificante (ed esilarante) ritratto dell’Italia che gli è, vorremmo dire, scappato di mano, lo stesso Verdone cerchi di rimediare appiccicando un finale natalizio-familista che nega tutto. Ma è troppo tardi, per fortuna. 
 
L’ultimo film di Paolo Virzì, invece, hanno cercato di venderlo come una commedia ma è in fondo un melodramma. E funziona proprio quando il regista va contromano rispetto all’ideologia della commedia all’italiana, quando scarta da una sceneggiatura tutta al bilancino, con le macchiette disseminate al posto giusto e le svolte piazzate astutamente.
Potremmo dire che i pregi e i difetti di Virzì derivano proprio dalle sue differenze con la commedia all’italiana. Lui non è cattivo come Age e Scarpelli o Sonego, e si impone quasi di perdonare i personaggi. Ma d’altro canto, a tratti li ama davvero, con un calore che a quei cinici geniali non sarebbe venuto in mente.
Intanto, gli appassionati della commedia italiana più nera e scatenata aspettano con ansia la nuova serie di Boris...



Inserito da Emiliano Morreale - 10 febbraio, 2010 - 17:45


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I migliori film del 2009


Il miglior film "di Natale" in giro per l’Italia è stato, nelle scorse settimane, una immersione completa nella cultura ebraica americana come non se ne vedevano da tempo sui nostri schermi, A serious man dei fratelli Coen. Uno dei loro capolavori, uno dei loro film più adulti e profondi. 
Dopo esser stati nomi di punta del postmoderno anni ’80 e ’90 (da Blood Simple a Barton Fink), quindi giocando con i generi le citazioni e i voli della macchina da presa, i Coen hanno svelato il loro animo più profondo con un paio di capolavori di angosciosa interrogazione morale, Fargo e L’uomo che non c’era, ma poi sembrava che per loro ci fosse ben poco spazio nel cinema americano di oggi, privo sostanzialmente di storie, generi, registi e divi. Oggi forse i due fratelli sono sbarcati come altri autori loro coetanei su un’isola deserta. E il fatto che non esista più "il cinema americano" rende forse possibile che esistano anche qualche decina di grandi film americani l’anno. La confusione del sistema fa spuntare ogni anno i vari Haynes, Jarmusch, Lynch, Van Sant, Cronenberg e perfino quel matto apolide di Terry Gilliam.
A Serous Man è la storia di un piccolo Giobbe moderno, ma trattenuta nei toni di un’assoluta quotidianità, grigia e senza spigoli, come svelando una pervasività del male che ormai è possibile rendere soprattutto con tutti i toni del grigio. Ossia, stilisticamente, con un ricorso costante alla gag smorzata, rallentata, magari identificabile solo alla sua terza o quarta apparizione. Un film che ha spiazzato molti spettatori (compresi alcuni fan dei Coen), ma che è, insieme a L’uomo che non c’era e Non è un paese per vecchi, un loro capolavoro della maturità.
 
E già che ci siamo, vale la pena forse elencare una piccola lista personale dei migliori film dell’anno appena trascorso. Un simpatico gioco, che tutti i critici fanno, fra sé e sé o in pubblico. Personalmente, il film più potente mi è parso Il nastro bianco, meritatissma Palma d’oro a Cannes e terribile film sul peccato originale dell’Europa, fiaba nerissima sull’infanzia e decantazione classica del mondo di un regista sempre sul filo del sadismo. Al secondo posto, i citati Coen. Poi Up, non fosse che per il primo folgorante quarto d’ora. Altro gran film dell’anno, Gran Torino di Eastwood, l’ultimo regista classico vivente.
E a seguire: Ponyo di Miyazaki (forse non uno dei suoi capolavori, ma comunque il grande film di uno dei maestri del cinema di oggi), Parnassus di Terry Gilliam, Two Lovers di James Gray, Coraline di Selick, Bastardi senza gloria di Tarantino (antipaticissimo, lui e i suoi fan, ma non si può negarne gli sprazzi di genialità…). E poi due piccoli film che rileggono i generi: Lasciami entrare, film svedese di vampiri di Thomas Alfredsson, e Moon, fantascienza filosofica alla Solaris diretto dal figlio di David Bowie. (E non ho visto Nemico pubblico di Michael Mann).
A parte (ma non perché siano inferiori ai titoli citati sopra) segnalo i due film italiani più belli: Vincere di Bellocchio e Baarìa di Tornatore. Se il primo, dopo un breve sbandamento dei critici a Cannes, è stato infine accolto con l’attenzione che meritava, il secondo mi pare invece sconti i pregiudizi dei cinefili, che lo hanno snobbato come il solito film di Tornatore sulla Sicilia. Mentre è invece un film sperimentale e popolare al tempo stesso, di gran lunga il migliore del suo autore.


Inserito da Emiliano Morreale - 19 gennaio, 2010 - 14:00


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di Emiliano Morreale

I film a Natale


“Mi hanno appena detto che su Sky Max c’è Blade 2. E io che pensavo che nulla potesse scalzare Una poltrona per due come tradizione natalizia”. Questo sms, arrivatomi da un’amica scrittrice, mi prende alla sprovvista. La prima reazione è precipitarmi a controllare che qualche rete mandi in onda Willie Wonka e la fabbrica di cioccolata. Non quello fin troppo consapevole e camp di Burton, ma quello genuino con Gene Wilder. Altro appuntamento natalizio, che temo a questo punto sia stato scalzato. Ma il giornaletto dei programmi mi conforta. Canale 5, 25 dicembre, mattina: Willie Wonka. Canale 5, per un istante, mi sembra il garante della consistenza nello spazio e nel tempo, mia e di una, o forse più, generazioni.
 
Piccoli mutamenti in generazioni di consumatori completamente succubi, avvicendamenti nella percezione del tempo, ciclico o lineare.
Un campo di studio ancora di esplorare nella formazione delle strutture del sentimento degli ultimi decenni: i palinsesti televisivi. E in particolare quello natalizio. Credo che studiando i palinsesti natalizi di Rai e Mediaset dagli anni Ottanta in poi si potrebbero cogliere alcuni dei riflessi condizionati di pensiero più profondi di una fascia d’età che ormai sta trai venti e i quarant’anni. Non si tratta della solita presenza di La vita è meravigliosa negli horror o nella puntata natalizia delle sitcom. Qui si tratta piuttosto di un’intera atmosfera festiva forgiata da annunciatrici, spot, da equipe che cooperavano a segnare l’irruzione di una diversità del tutto artificiale, di una rottura. Con spietata tenerezza, ad affondare in questo campo è stato qualche anno fa, con gusto da patchwork dietrologico, forse il migliore scrittore italiano di oggi, Nicola Lagioia, con un saggio intitolato Babbo Natale (Fazi 2005), che racconta la varie mutazioni dell’invenzione consumistica di Babbo Natale (compresa l’analisi di celebri spot, come quello di “Vorrei cantare insieme a voi”…)
 
Gli anni ’80 e ’90 sono stati il decennio del tv private e dunque quelli della formazione di una nuova estetica e di una nuova morale (si fa per dire) dell’Italia, ritmata non solo dalle domeniche sera del Drive In ma anche da un Natale popolato da Asterix, Lucky Luke, Willie Wonka, o da film dementi con cast stellari sfuggiti di mano a Hollywood dai primi anni ’60 alla fine dei ’70.
Oggi, nell’era delle pay tv, vedere i palinsesti Rai e Mediaset che replicano la cerimonia fa un effetto di un anacronismo, o forse del tentativo di rassicurarci in un’età di ulteriori mutazioni nei media (cioè dentro di noi). Buon anno dunque a tutti i cyborg italiani giovani e adulti.


Inserito da Emiliano Morreale - 7 gennaio, 2010 - 16:00


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Pane e brioche dei giovani cinefili


Piccolo aneddoto. In un’università di provincia, dopo un incontro, si parla con degli studenti. Uno di loro, nel confessare di poter andare pochissimo al cinema, dice di essersi formato con Fuori orario (“Ghezzi è come mia mamma”). Conosce a memoria Bela Tarr e le elegie di Sokurov o i film di Debord, ma ha visto al massimo un paio di film di Fellini e ignora chi siano Alberto Lattuada, Billy Wilder o Elia Kazan.
Non è la prima volta che mi imbatto in questi teneri mostri di cinefilia. E temo che diventino sempre di più. Alla retrospettiva torinese su Nicholas Ray, la vera sorpresa non è stata vedere che molti giovani spettatori non avevano visto i film di Nagisa Oshima, ma che agli under 30 era quasi sconosciuto Nicholas Ray, e film come Dietro lo specchio, Il dominatore di Chicago o Il temerario sembravano arrivare dalla luna.
 Fuori orario era nato oltre vent’anni fa come spazio ultra-cinefilo, in un palinsesto in cui, ad esempio, il pomeriggio scorrevano normalmente dei “doppi spettacoli”, con tutto il Sirk anni Cinquanta accoppiato ai film di De Santis o Freda. Su Telemontecarlo passava tutto il Buñuel messicano, e su RaiTre la domenica mattina tutto Powell e Pressburger e in seconda serata tutto Truffaut, dei Mizoguchi con copie fiammanti sottotitolate, o quasi tutto il John Ford sonoro (una quarantina di titoli). Fuori orario era lo sfizio finale.
Ora invece, scomparso completamente il cinema dai palinsesti generalisti, è rimasto l’ultima spiaggia, e rischia di edificare suo malgrado una generazione culturalmente deforme. Non è certo colpa sua: lui continua a offrire le brioche, solo che il pane non c’è.
Si dirà: il cinema ora è passato nei canali satellitari. Che però sono in gran parte a pagamento. Si dirà: ma adesso il cinema è scaricabile anche illegalmente della rete. Ma trova solo chi sa cosa cercare: insomma viene meno una delle cose più belle dell’esperienza cinematografica, la casualità felice dell’incontro con un’opera, la possibilità di scoprire filoni, di mettere in gioco i propri percorsi e magari di allargarsi dal cinema al resto del mondo.
Insomma, il rischio è che se fino a qualche decennio fa si cresceva grazie anche al cinema (al buon cinema e a quello cattivo), oggi si cresce, quando si cresce, nonostante il cinema (quello cattivo, ma anche quello buono).


Inserito da Emiliano Morreale - 4 dicembre, 2009 - 12:27


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di Emiliano Morreale

Oltre i confini della macchina da presa


Avvertenza ai lettori: quella che comincia oggi non è una rubrica di sport. Il “fuoricampo” del titolo è quello del cinema. È ciò che resta oltre i bordi dell’inquadratura quando si ritaglia e si inventa una porzione di mondo con la macchina da presa. Quello che, proprio perché non lo vediamo, nutre e forse dà senso al visibile. Fuor di metafora, quel che sfiora e supera i margini. I temi trascurati dai media, le prospettive eccentriche, gli spunti di riflessione più urgenti e vitali.
Eppure, anche la metafora sportiva va bene. Quando la palla va fuori campo, esce dal perimetro del campo da gioco, è perché c’è stato un eccesso. Un errore, ma talvolta anche una scelta deliberata, strategica. È allora che il gioco deve fermarsi, che si crea una pausa anche minima che permette di ripensare a quel che si sta facendo e a cosa c’è oltre la linea.
 
In questo blog si parlerà delle immagini del cinema per come stanno in rapporto con tutto il resto: con le arti, la cultura e la società. Il senso vorrebbe essere quello del superamento della cinefilia asfittica, quella che negli ultimi decenni ha prodotto le apologie del metacinema o il gusto nichilista del trash.
Si cercherà di essere curiosi e di andare il più possibile contromano, sconfinando continuamente in altri campi nella coscienza che il cinema è una maniera di aprirsi, non di chiudersi al mondo. È un punto di partenza, non di arrivo. E c’è sempre un fuori campo che si dovrebbe inseguire, anche tra le immagini.
 
E adesso, dopo questi preamboli, toccherà aspettare un’altra settimana per capire cosa intendo.
Per adesso, accenno solo a un evento recente che mi ha coinvolto direttamente. Come selezionatore del Torino Film Festival, insieme ad altri colleghi e sotto la guida appassionata e tenace di Gianni Amelio e di Emanuela Martini, abbiamo deciso di puntare per il concorso su due film italiani davvero ibridi e “fuoricampo”: La bocca del lupo di Pietro Marcello e Santina di Gioberto Pignatelli. Il primo ha vinto il festival, il secondo ha avuto una ottima accoglienza critica. Due film sperimentali, lontani dai modi consueti del cinema italiano, sospesi tra documentario e finzione, narrazione e poema visivo. Un piccolo assaggio del tipo di immagini delle quali si andrà in cerca nelle settimane che seguiranno.


Inserito da Emiliano Morreale - 25 novembre, 2009 - 12:19