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di Alessandro Spaventa

Note a margine


Si annunciano tempi grami per tutti. Tagli, riduzioni della spesa sociale, rinvio delle pensioni. Annunci fatti con volto doloroso da molti governanti europei (dolore per la conseguente mancata rielezione o sconfitta elettorale, probabilmente, più che per i destini di lavoratori e cittadini) e dettati dalle tempestose settimane appena trascorse, nel corso delle quali la furia dei trader e degli speculatori si è abbattuta sui mercati finanziari, apparentemente con l’obiettivo di travolgere l’euro come fu con il Sistema Monetario Europeo nel 1992. 
 
Pur essendo vero che alcuni dei Paesi europei un intervento sui conti lo avrebbero dovuto fare comunque (e tra questi c’è il poco citato e per il momento indenne Regno Unito), il modo in cui tutto sta maturando ha qualcosa di assurdo, oltre che essere precipitoso (e la gatta frettolosa, si sa…).  
Assurdo ben delineato e descritto da Marcello De Cecco nel suo articolo pubblicato su Affari&Finanza di lunedi’ 17 maggio, del quale vi propongo tre piccoli brani.
 
A proposito delle reazioni scandalizzate al fatto che la BCE compri titoli di stato di Paesi in difficoltà: “D’altro canto, a partire dall’estate del 2007, la Bce, non diversamente dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra, si è letteralmente riempita il portafoglio di titoli spazzatura dei più svariati emittenti privati, assorbiti dalle banche che li avevano in carico, a prezzi assai superiori ai valori di mercato. Ma di questo i soloni del senato virtuale (come Barry Eichengreen ha felicemente ribattezzato i mercati) non hanno dato alcun segno di preoccuparsi”. 
 
E ancora, a proposito dei deficit pubblici che tanto allarmano i medesimi soloni: “Così come (gli stessi mercati) non sembrano notare che l'esplosione dei debiti pubblici dei paesi sviluppati è stata indotta dalla necessità di salvare le banche private, condotte dai loro manager sulla soglia del fallimento per gli eccessi ai quali si erano abbandonati negli anni del nuovo secolo e fino al 2007. Ora le stesse banche, salvate a costi stratosferici dagli stati (oltre il 24% del Pil nel caso della Germania), accusano questi ultimi, con l’ausilio delle tre Parche del rating, regine dei pareri in ritardo e delle profezie ex post, di avere debiti pubblici insostenibili e impostano lucrose operazioni al ribasso sui medesimi.” 
 
E infine, sulle ricette chieste, quasi imposte, ai governi europei: “Supponiamo che i paesi europei ascoltino i consigli del senato virtuale, riuscendo a ottenere livelli di deflazione sufficienti a riportare in pochi anni l’equilibrio nei loro bilanci e a smorzare la crescita del debito pubblico. E’ di nuovo de Grauwe a tentare di infondere un po’ di saggezza macroeconomica in burocrati, politici ed economisti che ne sembrano del tutto ignari. Se tutti seguiranno le esortazioni dei mercati, egli nota, si scatenerà una deflazione talmente grave in tutto l’Occidente sviluppato da rendere ancor più disperata la situazione dei conti pubblici dei paesi coinvolti. Le entrate fiscali crolleranno e gli interventi di riduzione delle spese dovranno raggiungere livelli selvaggi, tali da scatenare il disordine sociale nei paesi più deboli. 
 
C’è da scommettere, purtroppo, che gli annichiliti politici europei non si renderanno conto del fatto che i mercati parlano per aumentare, come dicono loro, la volatilità e quindi le occasioni di guadagno e che il presidente Obama cerca di esorcizzare una nuova crisi finanziaria e la deflazione dal suo paese consigliando a noi quel che spera di non essere costretto a fare lui”. 
 
Vero che il tutto ha qualcosa di assurdo?



Inserito da Alessandro Spaventa - 25 maggio, 2010 - 16:21


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Consigli di lettura per la fine del mondo


Mi dicono "perché non fai una recensione in occasione del Salone del Libro?". Bella idea. Poi ci penso su un attimo, faccio scorrere lo sguardo sulla libreria… Su che accidenti la faccio la recensione? Boh…! Vuoto totale. Poi passa qualche giorno, sui giornali campeggiano titoli allarmati sulla fine del mondo come lo conosciamo, beh, forse ho esagerato, diciamo sulla fine dell’euro, e commenti di diverso tenore sull’unità d’Italia, e mi vengono in mente due libri che in tempi come questi qualche buono spunto di riflessione lo potrebbero fornire. Ecco quindi due consigli alla lettura, piuttosto che delle vere e proprie recensioni.
 
Il primo libro è un classico del genere che, nonostante sia stato scritto cinquantasei anni fa, è ancora quanto mai attuale, oserei direi un faro in questi tempi oscuri. Si tratta de Il grande crollo di John Kenneth Galbraith, pubblicato in Italia sia da Rizzoli (Bur) che da Bollati Boringhieri. Un saggio scritto nel 1954 che racconta la prima vera grande crisi finanziaria del capitalismo moderno, quella del 1929. Un’era geologica fa per molti versi, ma non per quanto riguarda la finanza, o meglio i comportamenti che sono alla base delle crisi finanziarie. Pagina dopo pagina si rimane allibiti da quanto poco siano cambiate le cose da allora; da come, nonostante tutta l’esperienza accumulata, le authority create, le leggi varate, i sofisticatissimi modelli elaborati, alla fine la storia sia sempre la stessa: illusione di guadagni facili, sete di guadagno e potere, speculazione senza freni, conflitti di potere, consorterie e hybris. Non solo una lettura istruttiva, ma godibilissima grazie alla penna scorrevole di Galbraith e alla sua capacità di raccontare in modo semplice anche le cose più complesse. 
 
Una capacità, questa, che è anche propria dell’autore del secondo libro che vorrei consigliare: Un paese troppo lungo di Giorgio Ruffolo, pubblicato da Einaudi alla fine del 2009. Nel suo volume Ruffolo ripercorre tre momenti storici cruciali nella storia del nostro paese, inteso come stato nazionale, tracciando un percorso non solo di estremo interesse, ma al contempo avvincente e per certi versi assai originale, almeno per chi dalla storia è incuriosito, ma non ne fa oggetto di studio. Del tutto nuovo e inatteso, almeno per me, è stato scoprire che l’Italia sarebbe potuta essere tale, un’unica entità governata da un unico sovrano, già all’epoca di Federico II. Un’epoca in cui gli italiani potevano contare su di un indubbio primato economico e culturale, presto vanificato. Segue una rilettura dell’avventura dell’unificazione garibaldin-cavouriana, ma soprattutto di tre grandi questioni che quest’ultima non seppe o volle risolvere e che in un modo o nell’altro hanno condizionato e condizionano ancora le vicende italiane: il ruolo della borghesia e il nazionalismo, il rapporto tra Stato e Chiesa e la questione meridionale. Questioni quanto mai attuali, cronaca dei nostri giorni verrebbe da dire. E ai giorni nostri Ruffolo arriva nella terza parte del suo libro, che prende le mosse dall’inizio del ‘900 per arrivare al binomio berlusconian-leghista e nella quale prova a delineare una soluzione possibile per un paese che forse è davvero troppo lungo.



Inserito da Alessandro Spaventa - 14 maggio, 2010 - 11:13


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Equilibri perversi


Mi e’ capitato sotto gli occhi un interessante paper di una coppia di giovani studiosi, Diego Gambetta e Gloria Origgi, che offre una chiave di lettura interessante su come funzionino le cose in Italia.
 
La teoria da loro proposta, espressamente frutto di vicende personali, è che nel nostro paese, e in particolare nel mondo accademico italiano, le cose vadano in una certa maniera perché nei rapporti all’interno dell’università domini la tendenza alla ricerca di un compromesso al ribasso. Mi spiego meglio. Gambetta e Origgi ipotizzano che qualsiasi relazione che comporta uno scambio tra due soggetti (prestazioni contro prestazioni o prestazioni contro denaro) possa essere inquadrata in uno schema preciso. Ognuno puo’ decidere di fornire una prestazione di qualità elevata, e quindi impegnarsi di più, ma farsi pagare di più, oppure di qualità scadente, meno impegnativa, ma anche meno remunerativa. Ad esempio si può decidere di scrivere un paper ex novo e farsi pagare 500 euro, o di riciclarne uno già pronto e farsi pagare 200 euro. La loro tesi, più che ragionevole, e’ che in generale ognuno preferisca lavorare poco e ottenere tanto e che nell’impossibilita’ di farlo preferisca rispettare i patti. Nessuno in ogni caso ha in cima alle sue preferenze di lavorare poco e ottenere poco, preferendo invece, ovviamente, ricevere tanto per un lavoro di basso impegno. Nessuno tranne l’accademia italiana. O almeno questa e’ la teoria dei due autori, basata sulla loro esperienza personale e su di una serie di aneddoti, veri, sull’università italiana.
 
Assurdo? Mica tanto. Pensate a questo caso: ad un ricercatore o professore che vive all’estero viene chiesto da parte di un’università italiana di fare una relazione, una ricerca o altro. Quest’ultimo compie diligentemente il suo dovere, salvo poi scoprire che il corrispettivo e’ al di sotto di quanto pattuito. Naturalmente il professore e’ scontento perché ha fatto un pessimo affare. L’università invece dovrebbe essere più che soddisfatta, in fondo ha pagato meno e ottenuto il massimo. E invece no. L’impressione è che la controparte italiana si senta a disagio, disagio dettato dalla qualità della prestazione del professore estero. Perché direte voi? Perché sottolinea con un matitone rosso la bassa qualità della media delle prestazioni italiane. Come un secchione che ripetendo bene la lezione mette in evidenza di fronte alla professoressa la pigrizia dei compagni piu’ svogliati. Secondo Gambetta e Origgi, molti nell’universita’ italiana preferiscono di gran lunga pagare poco e ottenere poco per non alterare un prezioso equilibrio in cui ognuno può non impegnarsi troppo e magari fare altro. 
  
Certo, passare da un caso personale corroborato da altri casi episodici a una generalizzazione è quanto di più pericoloso e sconsigliabile possibile, ed è il primo errore che ogni buon ricercatore dovrebbe evitare. Ma la teoria è suggestiva e realistica e pienamente in linea con quanto mi disse molti anni fa un amico a proposito del decadimento della qualità dei baroni in Italia. Un tempo questi ultimi preferivano scegliere come loro delfino una persona brillante perché ne andava del loro buon nome. Col passare del tempo, però, la percezione è che i baroni abbiano preso a scegliere persone meno abili di loro per non correre il rischio del classico allievo che supera il maestro. Un meccanismo che premia i più ambizioni e servili, ma meno bravi, e che a cascata porta gli incompetenti a rivestire le posizioni più importanti. Nelle università e negli ospedali come in politica.



Inserito da Alessandro Spaventa - 27 aprile, 2010 - 16:08


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Buoni e cattivi


PIL. Se ne parla molto. C’è chi lo ritiene una delle massime invenzioni del ‘900 e chi uno strumento del demonio. C’è anche chi ha opinioni più moderate, ma i campi in generale sono ben definiti: o si è a favore o contro.
Questioni accademiche, direte. Mica tanto, se, per dirne una, Sarkozy ha deciso di istituire una commissione con dentro più premi nobel che commessi. E’ vero che probabilmente il presidente francese era in vena di grandeur e sognava una via francese nella statistica mondiale, ma qualcosa di politico ci deve essere. E in effetti c’è. Il PIL si propone, con più o meno fortuna, di misurare la ricchezza di una collettività, in genere uno stato. E’ stato elaborato nell’ambito di un corpus teorico che assume la crescita economica come elemento fondamentale. Elemento di fondo che rimane anche in tutte le versioni corrette dell’indicatore. Ed è qui che entra in gioco l’elemento di politica, o meglio, come direbbe un economista, di policy, che poi si trasforma però appunto in elemento di scelta politica. Assumere il PIL come indicatore fondamentale delle performance di una nazione significa che l’obiettivo perseguito da quella stessa nazione è la crescita economica. Più o meno condivisibile, ma il problema è che tale obiettivo spesso viene determinato per default. Lo si persegue perché così è e così si fa ma, in molti casi, non c’è stata una scelta vera e propria, sicuramente non da parte di chi dovrebbe farla, i cittadini; ma spesso e volentieri nemmeno dai governanti, che prendono la cosa come un dato di fatto.
Il problema quindi non è l’indicatore, perché per misurare la crescita economica il PIL è sicuramente il più efficace in circolazione, ma l’obiettivo che ci si pone come nazione: siamo sicuri che sia la crescita ad essere lo scopo principale che si vuole perseguire? Non potrebbe essere il rispetto dell’ambiente, o un welfare efficace ed efficiente, o un livello di istruzione elevato? Cos’è che determina un’elevata qualità della vita per un popolo? Per alcuni potrebbe essere la ricchezza, e allora ben venga il PIL, per altri però potrebbe essere qualcos’altro, magari più tempo libero. Non è il PIL ad essere buono o cattivo, può esserlo la scelta a monte, quando essa vi sia. Il problema vero è che al momento non c’è.



Inserito da Alessandro Spaventa - 22 marzo, 2010 - 14:40


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GIGO


Che sta per Garbage In Garbage Out, ovvero: se usi dati sballati per fare elaborazioni, otterrai risultati altrettanto sballati.
L’espressione, nata nell’informatica, si è progressivamente estesa ad altri ambiti e noi la possiamo estendere ulteriormente applicandola al discorso della privatizzazione delle utilities locali. Ovvero, se fai una legge bacata che sembra fatta apposta perchè qualcuno ci lucri sopra, il risultato sarà che qualcuno potrebbe fare una privatizzazione con la quale qualcun'altro potrebbe lucrarci sopra, e assai. In una parola, Acea. In tre nomi: Alemanno, Caltagirone e Polverini. In un sostantivo: una svendita. In un aggettivo: sospetta. In un rafforzativo: assai.



Inserito da Alessandro Spaventa - 16 febbraio, 2010 - 11:36


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Viva la Rai?


Se l’acqua è opportuno e doveroso che rimanga in mani pubbliche, altrettanto non si può dire per la nostra cara, amata e augusta televisione di stato.
Ragioni di carattere economico, se esistevano alla sua origine (i rilevanti investimenti per lanciare una nuova tecnologia), ormai non ce ne sono. Ci sono però, a detta di molti, ragioni di carattere “democratico”. La televisione pubblica, secondo questi ultimi, è necessaria per garantire il pluralismo dell’informazione e programmi di valore culturale, informativo, e chi più ne ha più ne metta, che la tv commerciale per sua natura non inserirebbe nel palinsesto. E qui i casi sono due, o questi avvocati dell’informazione di stato non vedono la Rai, oppure sono in malafede. Per accorgersene basta gustarsi qualche telegiornale e scorrere un giorno a caso la programmazione della tv pubblica. I telegiornali propinano informazioni di partito (quale dipende dalla rete che guardate), scelte da direttori nominati da un consiglio di amministrazione che è espressione di quegli stessi partiti. Lottizzazione, la chiamano. La programmazione è un susseguirsi di inutili talk show e varietà, infarcita fino al midollo di pubblicità. Per quanto meritevole, è arduo sostenere che Report da solo possa giustificare tre reti, ingaggi plurimiliardari per Bonolis ed equivalenti e il costo di qualche migliaio di stipendi. Che senso ha pagare il canone per una televisione che è uguale a quella commerciale (e che oltretutto è governata dallo stesso padrone)? E soprattutto ha senso che nell’era di Internet, dove l’informazione è veramente plurale, e della televisione digitale, con la sua miriade di canali, ci si ostini ancora ad un mezzo d’informazione di stato? D’altronde se non esistono giornali e case editrici di stato (fatta eccezione per il poligrafico), perchè dovrebbe esistere una tv pubblica (mezzo ormai altrettanto vetusto)?
Privatizziamo quindi questa benedetta Rai, vendiamola ad un vero concorrente di Mediaset e passiamo oltre. E se proprio non si può, almeno facciamo come i francesi: solo canone e niente pubblicità. Forse allora sì che si avrebbero programmi di un qualche valore culturale (se non altro perchè costano meno).


Inserito da Alessandro Spaventa - 12 gennaio, 2010 - 11:47


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A-C-U-A: riprova e controlla…


E così, con la recente riforma dei servizi pubblici locali siamo arrivati anche alla privatizzazione dell’acqua. O meglio all’apertura obbligatoria delle porte delle aziende pubbliche che gestiscono acqua, rifiuti e trasporti locali ai privati. Un provvedimento frutto del furore liberista di alcuni e dei potenti interessi di altri, il cui vantaggio per i cittadini (e non gli utenti come amano definirci) è tutto da provare, e dubito che difficilmente potrà essere onestamente provato. Per due motivi, entrambi di buon senso, uno di ordine teorico (anche se il termine è un po’ altisonante) e l’altro di ordine pratico.
 
Quello teorico è che il servizio di fornitura d’acqua è per sua natura, salvo rarissime e fortunate eccezioni, un monopolio e quindi un servizio che viene fornito in un contesto assolutamente non concorrenziale. Logico aspettarsi che se la società che lo fornisce è privata essa si gioverà di tale situazione per ricavare profitti il più elevati possibile. E non si capisce perché i cittadini dovrebbero arricchire qualcuno per usare qualcosa che per definizione (e per la Costituzione) è loro. La scusa che viene utilizzata è che i privati gestirebbero in modo molto più efficiente i servizi di fornitura idrica. Assunto tutto da dimostrare (a meno che non sia un assioma) soprattutto in un contesto regolato e sussidiato come sarebbe quello dell’acqua.
C’è poi il motivo di ordine pratico, dettato dall’esperienza: la privatizzazione dei servizi pubblici non ha sortito effetti brillanti in nessun paese. Attendersi che possa avvenire in Italia vuol dire essere ciechi o in malafede. Basterebbe guardare cosa è successo con Autostrade (un monopolio regalato ai Benetton), o con Aeroporti di Roma, quello che accade con i servizi sanitari forniti dai privati ma pagati dalle Regioni, lo scandalo delle spiagge date in concessione eccetera, eccetera, eccetera…


Inserito da Alessandro Spaventa - 14 dicembre, 2009 - 13:40