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LE GUIDE

I musicisti che rompono...

... da Beethoven a Lady Gaga. E' il titolo dell'ultima Guida di Giudizio Universale. Un viaggio che attraversa i generi musicali - classica, jazz, rock, contemporanea, rap – smascherando le finte rotture di molti miti antichi e recenti. Ma soprattutto portando alla luce rotture solitamente trascurate. Ecco due voci in anteprima per i nostri lettori


di Massimo Balducci e Federico Capitoni


copmus.JPGQuella di Orfeo, prototipo del musicista che è in grado di cambiare il mondo. O quella del madrigalista Claudio Monteverdi, che ha inventato la canzone d’autore con secoli d’anticipo. O quella di Rossini, che si ritirò dalle scene alla stessa età in cui lo fece Battisti. O ancora quella del neomelodico Tommy Riccio, che con il pezzo ‘Nu latitante ha consumato la rottura più estrema: quella con la legalità.
 
  
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Riportiamo integralmente due voci della guida
 
 
 
NIRVANA (1987-1994)
 
Una volta, la musica indipendente era come la verginità: ogni artista poteva rinunciarvi – concedendosi ad una multinazionale per esempio, esponendosi in tv, o ammorbidendo un po’ gli spigoli – ma non per questo il concetto di verginità veniva messo in discussione. C’erano sempre i puri da una parte, i corrotti dall’altra, e il momento di passaggio tra le due sponde era netto e definitivo (si chiamava “commercializzazione”).
 
Poi è arrivato Nevermind. Storia del successo di Nevermind: 1) Il secondo disco degli allora sconosciuti Nirvana è pubblicato il 24 settembre 1991 dalla Geffen Records; 2) Il video del singolone, Smells Like Teen Spirit, viene trasmesso da Mtv con una frequenza martellante per settimane intere; finché 3) L’11 gennaio 1992 Nevermind scaccia via Dangerous di Michael Jackson dal primo posto delle classifiche Usa. Risultato, le copie vendute saranno 25 milioni invece delle auspicate 250mila, e non si tratta soltanto di cifre: il botto dei Nirvana assume istantaneamente un valore simbolico e storico, è il primo grande evento musicale degli anni Novanta e li definisce nel segno di una rivolta contro l’edonismo reaganiano del decennio appena concluso. Infatti di lì a poco anche in politica l’America volterà bruscamente le spalle alla destra repubblicana (che pure aveva fino all’anno prima un consenso altissimo, grazie ai trionfi nella Guerra Fredda e in quella del Golfo) eleggendo l’outsider Bill Clinton alla Casa Bianca.
 
Nevermind annuncia – almeno in apparenza – un clamoroso ritorno della cultura giovanile agli incendiari anni Settanta: con testi orientati in senso nichilista (punk), melodie/armonie modali, e sonorità estremamente rabbiose a base di chitarra distorta. Eppure non si tratta di un revival. Perché la sperimentazione sfrenata a livello microscopico (ardimentosi giri di accordi, abbondanza di note estranee al pentagramma, ritmi sincopati, contrasti sonori violentissimi), è contenuta dentro un’architettura complessiva dei brani che è più rigida di un pezzo di Madonna. Tutti gli elementi vengono cioè piegati ad una legge strutturale superiore: quella della canzone pop, che è poi precisamente il fondamento di quello star-system contro cui ci si stava metamusicalmente ribellando. Le parole di Smells Like Teen Spirit in questo senso rappresentano l’autodenuncia di una doppiezza insanabile: assumersi la responsabilità dell’hype nel momento stesso che se ne chiede la distruzione. E Kurt Cobain, la cui voce mantiene un suo struggente romanticismo nonostante le urla belluine, incarna anche fisicamente questa doppiezza.
 
Insomma i Nirvana non hanno reso “popolare” l’alternative rock, più di quanto abbiano reso “impopolare” la canzonetta pop. Ben al di là delle circostanze originarie, Nevermind resta un brillante connubio di corruzione e purezza, prostituzione e verginità, governo e opposizione, fascismo ed anarchia. E mentre la sua formula stilistica è stata dimenticata (abbastanza) in fretta – come tutto il filone grunge da cui era venuta – la breccia aperta nel muro che separava indie e mainstream è stata da esempio per tutti, diventando col tempo una voragine, alimentando quel processo irreversibile di compenetrazioni reciproche a conclusione del quale è nato il mainstrindie odierno: dove nulla è più indie e nulla è più mainstream (o come direbbe Travaglio, nessuno è innocente e nessuno è colpevole). Dimostrando come i due ruoli si potessero – e dunque si dovessero – assumere simultaneamente, i Nirvana hanno anticipato l’assenza di dialettica, il perenne grigiore in cui oggi traccheggia il mondo della musica.
(Massimo Balducci)
 
 
 
RICHARD WAGNER (1813-12883)
  
Di solito chiunque effettui, o anche solo pensi, una riforma è oggetto di molteplici attacchi. Come minimo qualcuno scende in strada a manifestare. Ora, sarà per la portata relativamente esigua che una riforma in musica può portare, o poiché nel caso specifico sembrava non esserci nulla di cui lamentarsi, ma sta di fatto che l’intervento di Richard Wagner sulla storia dell’opera, oltre ad aver costituito una pietra angolare di notevoli dimensioni, è stato anche un’acclamata novità. Dai tempi di Monteverdi il teatro musicale non aveva avuto una spinta innovativa così forte (quella di Wagner, per inciso, è anche l’ultima). Nel tentativo di fondare un’opera d’arte totale, pur tenendo sempre presente il mito (non quello greco, ma celtico-germanico), Wagner ruppe con una tradizione che voleva il musicista da una parte e lo scrittore dall’altra. Questa unitarietà delle discipline in un solo soggetto può sembrare di secondaria importanza ma non lo è, giacché è emblema – prima filosofico, poi tecnologico – di una tensione alla trasversalità, all’universalità del discorso artistico: pensare un’opera dall’inizio alla fine, intutte le sue espressioni e declinazioni, è un atto di presunzione che avvicina l’uomo – l’artista – a dio.
 
Sicché Wagner, tedesco di Germania, cresciuto in ossequio e venerazione dei grandi compositori suoi connazionali, un giorno – ventenne – decise che avrebbe fatto tutto da sé. E così fece. Tutti i suoi grandi drammi, quelle opere che oggi sembrano di una durata spaventevole e intollerabile, sono frutto in toto della sua penna; che scrive note, che scrive parole. Una fortuna, quella di Wagner, guadagnata con molta fatica. Oltre ai grandi periodi di povertà, ai quali dovette far fronte indebitandosi enormemente, fuggendo come poteva dai creditori, il compositore di Lipsia dovette digerire anche moltissimi amori intellettuali non corrisposti. Da giovanissimo era infatuato dell’acclamato direttore d’orchestra Felix Mendelssohn, al quale fece dono della partitura del suo primo esperimento sinfonico, una sinfonia in Do maggiore. Mendelssohn dovette custodirla così bene che del suo giudizio e di una sua esecuzione non si seppe mai nulla. E poi c’era la devozione per la filosofia di Schopenhauer, nella cui visone metafisica dei rapporti amorosi vedeva l’esatto spirito delle sue drammatiche storie teatrali. Spesso scrisse al filosofo, nessuna risposta arrivò.
 
Anarchico (altro che di destra!), venne persino condannato a morte nel 1849 per aver partecipato ai moti rivoluzionari; trovò rifugio a Zurigo. Insomma, una vitaccia. Nonostante la febbrile attività e le composizioni colossali, Wagner poteva considerarsi una sorta di precario ottocentesco. Fino all’età di cinquanta anni non fu in grado di mantenersi davvero da solo, andando avanti con i prestiti degli amici; poté godersi la gloria soltanto in tarda età, una volta trasferitosi a Beyreuth. D’altro canto il nome Wagner non ha mai fatto rima con fortuna: ancora oggi si crede che la famosa cavalcata che apre il terzo atto de La Valchiria porti sfiga.
 
Ma al di là di una sorta di nuova legislazione estetica (questo il senso della parola “riforma”), che includeva anche l’immaginifica invenzione del golfo mistico, la famosa buca dove ancora oggi si incunea l’orchestra, la cesura che Wagner opera è musicale, con tutti i significati linguistici, estetici e quindi sociologici che ne derivano. E tale rottura è nella composizione di un accordo; siamo all’ossimoro, è vero: un taglio, una rottura, che invece di spezzare produce. Il cosiddetto Tristan-Akkord (Accordo del Tristano), arditezza armonica che ci getta dentro Tristan und Isolde, oggi può sembrarci qualcosa di assolutamente irrilevante, di comune ai nostri orecchi. Ma la novità la si comprende se si ricorda che il primo impatto risale al 1865. Impressionò allora quell’accordo instabile, misterioso come i moti dell’animo, così vicino alla natura dei sentimenti umani. Un’analisi musicologica, che ha negli anni consumato tutti i tipi di inchiostro, porta a una sola ovvia conclusione: che Wagner non mette in crisi l’armonia, bensì la teoria dell’armonia. Chiunque sia rimasto scandalizzato da un Fa, un Si, un Re# e un Sol# messi uno sopra l’altro, era soltanto vittima di un impianto normativo che andava interrotto. Ma non per puro spirito rivoluzionario, bensì perché insufficiente, limitante, di impedimento a certe espressioni di cui il musicista sentiva il bisogno. Wagner in realtà non inventa nulla. Wagner ripristina soltanto.
 
Si attira l’avversione di Nietzsche, suo acceso sostenitore fino agli anni del successo, che lo accusa di essere diventato un “teatromane”, incline al compiacimento delle masse, un cristiano antisemita, apologeta della storia nazionale. E infatti nella sua rivoluzione non il distruggere, ma il ricostruire è programmatico: Wagner è un filologo impressionante, più di Nietzsche. Wagner pensa in grande. Le durate si dilatano, l’orchestra aumenta di dimensioni, alcune opere fanno parte di una vera e propria saga (come la Tetralogia: se si volesse – da folli – assistere ai quattro capitoli di fila, bisognerebbe avere un’intera giornata a disposizione). Ma fa da contrappeso l’invenzione del Leitmotiv, il tema conduttore che identifica situazioni e personaggi, e che ricorre con adeguata regolarità, accompagnando sempre l’ascoltatore per mano in un viaggio così lungo che lo smarrimento sarebbe altrimenti inevitabile. Riuscendo a tenere tutto insieme, in un continuum di suoni e significati inimitabile, Wagner raggiunge l’apice di una modalità teatrale, quella della parola cantata (la lirica!), mai eguagliato. Dopo di ciò, c’è soltanto il cinema.
(Federico Capitoni)



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28 Aprile 2011


giudizio:



7.43049
Media: 7.4 (41 voti)

Commenti

FANTASTICO!!! Davvero

FANTASTICO!!! Davvero interessante, spiritoso e documentato allo stesso tempo. Bravi!!

GRAZIE MILLE! diffondetelo,

GRAZIE MILLE! diffondetelo, parlatene in giro, regalatelo, obbligate i vostri amici a comprarlo... insomma se vi piace, sosteneteci!

grazie martina, se ha trovato

grazie martina, se ha trovato valido l'articolo, provi a leggere tutto il libro. e poi ci faccia sapere

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